domenica 5 settembre 2010

La resurrezione di José Saramago


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“… mentre Maria, gemendo, si abbandonava col proprio corpo su quello di lui, bevendogli il grido dalla bocca, con un bacio avido e ansioso che scatenò nel corpo di Gesù un secondo e interminabile fremito”, scrive il Nobel portoghese José Saramago, in uno dei romanzi storici più celebri, Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991).

Due anni più tardi giunge la condanna unanime sia del clero cattolico sia di quello portoghese. La scomunica nei confronti del pensiero politico di un uomo che ha rivendicato il diritto par excellence dello scrittore, di un intellettuale che ha ricercato e che ha reinventato la storia, di un Autore drammatico che ha riscoperto informazioni di una realtà passata ed elusiva. Per esempio, all’epoca della morte di Gesù Cristo la crocefissione era una pratica abituale per i romani e gli uomini crocifissi furono migliaia. Secondo il clero cattolico e portoghese la colpa di José Saramago è di aver immaginato un Gesù Cristo umano, “troppo umano” avrebbe detto Nietzsche, un uomo con la dignità di uomo e per questo si ribella al principio paolino per antonomasia. A partire dalla Lettera ai Romani di San Paolo, in cui si legge “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”, il potere ecclesiastico istituisce la sua millenaria tradizione cattolico-cristiana. Condannato per eresia, José Saramago decide per l’esilio volontario nell’isola spagnola di Lanzarote.
Il poeta e romanziere, a causa di una leucemia cronica, muore il 18 giugno alle ore 13.45 nella sua residenza della città di Tías, Isole Canarie. Dopo oltre 15 anni, il Portogallo riabbraccia in extremis il corpo del filosofo narratore. Nel salone d’onore del Municipio di Lisbona, fra una numerosa schiera d’intellettuali e politici e un incessante scroscio di applausi, le corone inviate da Castro e le lacrime dignitose della moglie Pilar, il corpo di José Saramago brucia nella camera ardente. Fuori, il saluto di centinaia di pugni alzati. Nel frattempo le agenzie di stampa battono un’altra notizia. Più che una notizia, un attacco diretto dal quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore romano, traverso cui prende alito l’anatema nei confronti del pensiero critico dello scrittore portoghese da parte dell’intera gerarchia della Chiesa cattolica, senza alcuna misericordia. Mentre la bara di uno dei più bravi scrittori del XX e del XXI secolo si sta per chiudere, il Vicario di Cristo in terra e la sua Chiesa, quella ufficiale con gli ermellini di porpora e le pantofoline, le Mercedes blindate e gli anelli d’oro all’indice, come il vecchio Dio onnipotente, strillano vendetta.
“L’onnipotenza (presunta) del narratore” intitola il pubblicista della Santa Sede. Sull’articolo del Vaticano si legge il giudizio sulla mente di José Saramago, “uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro, di nessuna ammissione metafisica, collocato dalla parte della zizzania e inchiodato pervicacemente al materialismo storico, alias marxismo”. Già nel 1998, il Vaticano aveva sollevato un vespaio di polemiche a causa del Premio Nobel per la letteratura insignito a uno scrittore dissacrante, eretico, ribelle nei confronti del principio – di per sé paradossale - della tirannia dell’opinione pubblica del gregge: la sottomissione alla Chiesa paolina. Proprio a quel tempo, ispirato dalla sua contraddistinta ironia, divertente in alcuni casi fino allo spasimo, e animato da quel genio poetico esclusivo dei grandi rivoluzionari della storia, José Saramago rilasciò una dichiarazione che oggi ha tutto il sapore di una profezia: “Bisogna attendere con pazienza che, dalle circostanze, nasca una qualche idea più profonda di solidarietà”.
Attraverso un’attenta analisi dell’ultimo periodo della vita creativa dello scrittore, rileggendo le opere fondamentali a partire da Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991), non si può non percepire l’intenzione storica e politica degli scritti di José Saramago: l’uguaglianza e la solidarietà tra Dio e l’uomo, attraverso la ri-umanizzazione del Sacro. Un intento che si rifà a un insieme di valori fondamentali e imprescrittibili, di principi che hanno contraddistinto l’orientamento critico dei gradi maestri del pensiero politico dell’Ottocento, da Feuerbach a Marx, leggendo Nietzsche fino allo stesso Stirner. Col suo inconfondibile carisma di narratore di razza, consapevole di vivere nell’epoca della morte di Dio, José Saramago tenta di avvicinare la sacralità ad una percezione storica e realistica dell’uomo: “Come tutti i figli degli uomini, il figlio di Giuseppe e Maria nacque sporco del sangue di sua madre, vischioso delle sue mucosità e soffrendo in silenzio. Pianse perché lo fecero piangere, e avrebbe pianto per quest’unico e solo motivo”.
Ispirato dai filosofi dell’Ottocento, il poeta portoghese racconta storie sostenute da immaginazione, realismo, compassione e ironia. José Saramago rivendica valori che s’incarnano in una prosa irriverente verso l’autorità, profondamente intrisi di umanesimo, nell’intenzione di risanare la frattura tra Dio e l’uomo. L’alienazione materiale dell’uomo da Dio compiuta a cominciare dall’istituzione dell’ordine e del privilegio ecclesiastico paolino. Il distacco, sostiene Canetti, è indice per antonomasia della posizione del comando. Il rapporto verticale tra Dio il pastore e gli uomini il suo gregge declina più lucidamente a rapporto di potere padrone-servitore. Di conseguenza l’uomo si ritrova estraneo non solo rispetto a Dio ma altresì rispetto a se stesso.
Il Gesù di Saramago si ribella contro tale frattura, contro l’ordine gerarchico, la corruzione, l’ordinamento, la formula, contro la divisione degli uomini in dominanti e dominati. Nella sua visione l’Autore rispetta e s’innamora della figura storica o favolosa non importa ma di certo umanizzante di Gesù Cristo. Di fronte all’affermazione di Maria di Magdala: “Guarderò la tua ombra se non vuoi che io guardi te”, il Gesù di Saramago risponde: “Voglio essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi”. Il sentimento e la passione di Dio assumono in Saramago forma umana nella figura di Gesù Cristo, un uomo che ama, soffre e ha paura come ogni uomo. Al contrario dei detentori dell’autorità politica, religiosa e morale, che a suo tempo hanno crocifisso la dignità e la solidarietà di Cristo in nome della Legge, o di coloro che dall’Ottocento fino a oggi - direbbe Nietzsche - hanno trasformato le Chiese nei sepolcri di Dio.
A proposito della variopinta gerarchia di scribi del vangelo secondo Ratzinger, in specie dell’amanuense del papa autore dell’articolo sull’Osservatore Romano, non si può non ricordargli i dogmi della dottrina cristiano paolina. Secondo San Paolo l’onnipotenza di Dio è tale da istituire un’autorità politica, ma non perché l’autorità si debba considerare come inviata personalmente da Dio o perché ogni sua azione è da considerarsi come buona. Piuttosto perché Dio stesso, per il bene degli uomini, secondo San Paolo, insegna l’importanza dell’autorità nella vita civile. Lo sottolinea nel suo modo singolare José Saramago: “È pur vero che Dio sceglie di potere ciò che può Cesare, ma Cesare non può nulla di fronte al potere di Dio”. Ed è l’autorità politica - come dichiara lo stesso Saramago - a ispirare Il vangelo secondo Gesù Cristo, quando Erode il Grande, re della Giudea, ordina il massacro dei bambini allo scopo di uccidere Gesù. Si chiede Saramago, “Come può Dio inviare il proprio figlio sulla terra allo scopo di farlo sgozzare a pochi mesi?”.
L’autorità politica, secondo San Paolo, è costituita in modo legittimo poiché “è al servizio di Dio per il bene, […] e per la giusta condanna di chi opera il male”. Un’affermazione di cui non è stato convinto nella suo pellegrinaggio ad Auschwitz nemmeno il papa, fra lo stupore dei presenti. Ne fa nota il Nobel portoghese alla presentazione della mostra di Sofía Gandaris dedicata a Kafka: “Dov’era Dio?” si è chiesto Ratzinger, “Dio non è qui” ha risposto la pittrice con uno dei suoi dipinti, accompagnata da un sottofondo di musiche di Dvorák e Mahler.
Di contro alla figura di un Dio vendicativo, egoista, interessato all’onnipotenza e distante dagli uomini, responsabile altresì delle loro sofferenze, sono schierati alla stregua di Saramago pedagoghi del pensiero critico ottocentesco, intellettuali del calibro di Feuerbach, Marx, Nietzsche, Stirner. Se l’alienazione tra Dio e l’uomo è considerata non una perdita ma un arricchimento dell’uomo medesimo per Hegel, Feuerbach rovescia la posizione hegeliana trasformando la teologia in antropologia, lo studio di Dio nell’autoconoscenza dell’uomo. In quanto patologia psichica causa d’immiserimento, la religione sarà oltrepassata traverso una presa di consapevolezza graduale dell’uomo, tale da smascherare i dogmi di secoli di storia e ritrovare Dio dentro se stesso.
Marx rettifica e approfondisce le tesi di Feuerbach, concependo l’uomo non astratto e astorico ma concreto e storicamente determinato, analizzando la religione non come forma di autocoscienza dell’uomo ma fonte della sua assoggettazione. Per Marx il Dio ecclesiastico è l’espressione specifica del dominio della borghesia e del capitale, un Dio alienato dall’uomo nello stesso modo in cui “l’operaio si viene a trovare estraneo rispetto al prodotto del suo lavoro”. Un Dio autoritario che muore nel pensiero sferzante di Nietzsche, che di conseguenza lascia trasparire le auto-contraddizioni della morale: “Il mondo dei concetti morali «colpa», «coscienza», «dovere», «sacralità del dovere» ha il suo focolare d’origine - i suoi inizi, come gli inizi di ogni autorità terrena sono stati a fondo e lungamente irrorati di sangue”. La morte di Dio apre l’epoca nichilistica, il tempo in cui Stirner proclama la libertà anarchica del singolo, di un uomo fine a se stesso che non ripone causa né in Dio né nello Stato né nella Chiesa, ma unico proprietario della potenza: “Nell’Unico, il possessore si dissolve nel Nulla creatore dal quale è nato”. A questo punto riecheggiano in funzione critica le parole del Dio del Vaticano nel momento preciso in cui si presenta a Caino che risponde, nell’omonima opera del filosofo-narratore José Saramago: “Sono il signore sovrano di tutte le cose, E di tutti gli esseri, dirai, ma non di me né della mia libertà”.
Saramago immagina nelle sue opere un Dio più autentico che rinasce nell’epoca della morte di Dio, la storia del nichilismo e delle ideologie millenaristiche, un Dio che risorge nel momento in cui di-svela il valore della sua carica umanizzante, con le ansie, le sue angosce, le sue paure e i suoi tormenti. In questo modo leggiamo non “l’onnipotenza presunta del narratore” ma l’onnipotenza narratrice di un Dio che si fa Uomo, non una “destabilizzante banalizzazione del sacro” ma una rivalorizzazione sacra e morale dell’uomo, temi cari all’Autore portoghese sin dal suo primo scritto, Terra del peccato (1947), un’opera messa all’indice dalla Pide, la polizia politica del regime dittatoriale di António Salazar.
Per Saramago l’eternità è quella di un eterno non essere. Allora, sulla falsariga di Eco si può concertare che l’ateismo militante del Nobel portoghese non è in polemica contro Dio, ma contro le religioni ideologiche e politiche che fanno di Dio il pretesto per giustificare stragi, violenze fisiche e spirituali. A cominciare dalla Chiesa paolina, che ha ispirato principi religiosissimi e conniventi ai regimi di Mussolini in Italia, di Salazar in Portogallo, di Franco in Spagna, di Pinochet in Cile, di Videla in Argentina, che ha taciuto, di più ha favorito la fuga del capitano delle SS Priebke e di altre centinaia di criminali nazisti. Senza dimenticare che sulle bandiere naziste o “uncinate” – per riprendere un termine caro all’amanuense del papa - stava scritto Gott mit uns, cioè “Dio è con noi”, che gli attentatori delle Twin Towers erano musulmani, che Bush ha invaso l’Iraq canticchiando le note patriottiche americane della canzone God Bless America. E non voglio ricordare il periodo dell’età buia medioevale. Scrive Eco nella prefazione a Il Quaderno: “Per cui mi viene da riflettere che forse (se talora la religione è o è stata l’oppio dei popoli) più spesso ne è stata la cocaina. Credo che anche questa sia l’opinione di Saramago e gli regalo la definizione”.
In relazione a Il Quaderno, non posso glissare sulla “querelle” fra Einaudi e José Saramago riguardo alla pubblicazione e alla censura da parte del proprietario della casa editrice e primo ministro Berlusconi. L’interessamento introspettivo di carattere storico sociale dell’opera nei confronti dell’Italia da parte del Nobel getta una luce chiara sull’arbitrio e – avrebbe detto Saramago - sulla “Cecità” che come patologia colpisce chi sottrae la sovranità democratica al popolo per amministrare i propri affari da Dio. Sicché mi sento in dovere morale di solidarizzare personalmente con l’appello inoltrato dal Nobel, costretto a pubblicare con Bollati Boringhieri: “In effetti, nel paese della mafia e della camorra, che importanza potrà mai avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente? In un paese in cui la giustizia non ha mai goduto di buona reputazione, che cosa cambia se il primo ministro fa approvare leggi a misura dei suoi interessi, tutelandosi contro qualsiasi tentativo di punizione dei suoi eccessi e abusi di autorità?”.
Così, la censura e la messa all’indice dei testi, in cui sono racchiuse le parole critiche di un uomo per genealogia annoverato alla grande famiglia degli aristocratici dello spirito, cioè di pensatori schierati dalla parte dei “deboli” contro le strutture di potere politico paoline, risuonano come un’ellenica benedizione. Si pensi che i valori rivendicati dal Nobel portoghese hanno ispirato il secolo prima uno tra i poeti e filosofi eraclitei più forti e vitali. Nei confronti delle polemiche illegittime e immorali da parte dell’autorità religiosa e politica, Nietzsche scrive: “Getterò il papa in prigione e farò fucilare Guglielmo, Bismark e Stöcker».
Familiarizzando con Nietzsche, Juan José Tamayo, il teologo e fondatore dell’Associazione dei teologi Giovanni XXIII, sostiene di buon grado che sia il filosofo tedesco sia il Nobel portoghese convengono su un punto essenziale. L’idea che la morte di Dio non significa che Dio prima era vivo e finalmente è morto, ma che il concetto di Dio è diventato vuoto, passivo, decadente, ha perso la sua parte attiva, la potenza, in una parola, la vita. “Dio è il silenzio dell’universo e l’essere umano è il grido che dà senso a tale silenzio”, ricorda il teologo al romanziere portoghese e alla pittrice Sofia Gandarias, durante una passeggiata per le strade di Siviglia. E Tamayo, animato da un apprezzabile senso morale, si dichiara personalmente d’accordo con Saramago nell’affermare che “La storia degli uomini è la storia dei loro mancati incontri con Dio: né lui c’intende né noi lo intendiamo”.
Alla perdita di significato del concetto di Dio consegue, secondo Saramago, l’insignificanza sia del nome della persona sia della persona stessa. Nel testo Tutti i nomi, l’Autore immagina un mondo in cui i personaggi non hanno un nome, poiché se gli uomini conoscono il nome che gli hanno dato, non conoscono quello che hanno. Alla Conservatoria Generale dell’Anagrafe, la costruzione dove si archiviano TUTTI i nomi dei vivi e dei morti, lavora il Signor José, l’unico personaggio della storia a conservare un nome, il personaggio simbolo della violazione della legge della maggioranza e della spinta verso il cambiamento, della differenziazione rispetto al conforme, della speranza.
Saramago, iniziatore di quell’originalissima “scrittura orale” che contraddistinguerà il suo stile, persegue la sua riflessione nella distopia La caverna. Immagina un Dio nei panni del vasaio Cipriano Algor, una professione allegoricamente simile a quella di colui che plasmò l’uomo dal fango soffiandoci sopra lo spirito vitale. Ma un Dio depotenziato e delegittimato dal Centro, l’entità disumanizzante dell’opera. Una città Centro commerciale non edificata per l’uomo ma contro l’uomo stesso, epifania del potere capitalista che si maschera dietro ai principi partitocratici delle democrazie Occidentali. Cipriano Algor “aveva visto cadere una maschera e aveva capito che dietro ce n’era un’altra esattamente uguale, capiva che le maschere successive sarebbero state fatalmente identiche a quelle già cadute, è vero che il segreto dei segreti non esiste, ma loro lo conoscono”.
Traluce l’insegnamento di etica solidale del pensiero storico ma soprattutto pedagogico dello scrittore portoghese, di un uomo che ha dichiarato di restare fedele fino alla fine dei suoi giorni ai valori del comunismo, “ma non parlatemi di stalinismo: l’ho sempre condannato. Il comunismo, per me, è di natura ormonale. Oltre all’ipofisi, io ho nel cervello una ghiandola che secerne ragioni affinché io sia stato e continui a essere comunista. Quelle ragioni le ho trovate, un giorno, condensate in un motto de La Sacra Famiglia di Marx e Engels: Se l’uomo è formato dalle circostanze, bisogna formare le circostanze umanamente. Le circostanze non le ha formate umanamente lo stalinismo, né tanto meno le formerà mai il capitalismo, che è pervertito per definizione. Dunque il mio cervello continua a secernere ormoni”. Dove per comunismo s’intende non uno stato di cose che debba essere instaurato, ma un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Per José Saramago il mestiere dello scrittore oggi, la sua resurrezione, non è creare ma riconsegnare dignità alle parole, far risorgere il senso reale e storico di parole eclissate come democrazia, diritti, solidarietà, speranza, piuttosto che Chiesa, Stato, Ratzinger, Berlusconi. Il romanzo è appunto il luogo in cui si può imparare a lottare contro la progressiva perdita di significato delle parole, del nome della persona e della persona stessa. La scrittura è da intendersi come uno spazio aperto, oceanico, in cui confluiscono diversi fiumi di parole non più cieche ma capaci di vedere la vera immagine dell’inferno, del mondo dominato dal Mercato in cui viviamo. E lo scrittore è colui che ha ben presente lo stato di cose: “In altre e più chiare parole, dico che i popoli non hanno eletto i loro governi perché li «portassero» al Mercato, ma è il Mercato che condiziona in ogni modo i governi perché gli «portino» i popoli. E se parlo così del Mercato è perché è lui, oggi, e sempre di più ogni giorno che passa, lo strumento per eccellenza dell’autentico, unico e indiscutibile potere, il potere economico e finanziario mondiale, che non è democratico perché non lo ha eletto il popolo, che non è democratico perchè non è retto dal popolo, che infine non è democratico perché non mira alla felicità del popolo. Il nostro antenato delle caverne direbbe: «È acqua». Noi, un po’ più saggi, avvertiamo: «Sì, ma è inquinata»”.
Il caro amico di Saramago, Giancarlo Depretis, professore ordinario di letteratura spagnola a Torino, traduce un intervento del Nobel riguardo al tempo della morte di Dio e dell’insignificanza che assunto determinate parole. Nei discorsi politici, sulle stampe giornalistiche, parole come Umanità, Patria, Dovere, sono intenzionalmente pompate, curate con effetti speciali che vanno dal “tremolio pietoso” allo “stridore della fanfara” della voce, rigonfiate chirurgicamente con lettere maiuscole per dare senso al gregge che non pensa col suo cervello. Non confondete le “lucciole per le lanterne”, ammonisce Saramago.
Oggi va di moda nella panoramica delle idee la parola speranza, ma scritta: Speranza. Così scritta, con la S maiuscola, smarrisce il suo valore, così per Dario Fo il giorno seguente la morte di Saramago: “"Hoy a mí me falta todo, me han arrancado un trozo de vida”, così per uno dei suoi allievi Saviano: “Saramago era la esperanza de cambiar las cosas”, così per la moglie Pilar: “José Saramago escribía libros y abría puertas por las que transitamos hacia una cultura, otros escritores, un modo de entender la vida, un país(34)”, così per tutti noi che siamo stati “vicini” e continueremo ad esserlo, a José Saramago.
Per il Nobel portoghese la speranza ha a che fare con qualcosa di tremendamente vicino con la libertà reale ed effettiva e non apparente della persona, con un pensiero critico in continua evoluzione e non dogmatico, con l’individualità spontanea educata per vivere in una comunità, con un’etica di solidarietà chiamata comunismo. Sepulveda ricorda che per Saramago essere comunista nel XXI secolo é una “questione di etica di fronte alla storia, non è ideologia ma intendere la solidarietà come un fatto collegato al vivere(35)”. Solidarietà, che non vuol dire atto di carità o forma di altruismo, ma piuttosto un nobile sacrificio inseparabile dal desiderio di lotta per la liberazione dell’uomo. Di certo è anacronistico parlare di lotta di classe, ma non di capitalismo globalizzato e soprattutto di sfruttamento sociale. In quest’ampia categoria che comprende tutti coloro il cui lavoro è direttamente o indirettamente sfruttato, si può ricercare analiticamente la formazione del proletariato post moderno in quanto classe. Qui forse si dovrebbe trovare la sinistra. Ne fa nota Saramago ne Il Quaderno(36), nell’ottobre del 2008, quando comprende che Marx non ha mai avuto tanta ragione come oggi, e si chiede, come molti, “Dove sta la Sinistra?”. Dove c’e il silenzio e si è capaci di ascoltare la voce della giusta indignazione dell’uomo, avrebbe detto William Blake. Una di queste è la voce stessa di José Saramago. Un’altra è la voce di tutti coloro che raccontano la sua resurrezione.

A cura di Marco Purita
Da: http://www.josesaramago.org/detalle.php?id=891