sabato 6 marzo 2010

In culo al mondo di António Lobo Antunes


in culo al mondoIn culo al mondo di António Lobo Antunes
Titolo originale: “Os cus de Judas”






"Una guerra. Una sporca guerra. La guerra coloniale in Africa voluta e condotta dalla dittatura salazarista dagli anni '60 fino al '74, contro i movimenti di liberazione della Guinea, del Mozambico e dell'Angola. E in questo romanzo proprio di Angola si parla, terre della fine del mondo dove un'intera generazione di portoghesi ha vissuto atroci esperienze, ha perduto le illusioni ma forse ha acquisito una coscienza politica e civile. Eppure è una ferita che a stento si rimargina, e forse a rimarginarla, per elaborarne il lutto, un Io narrante che sul fronte della guerra ha vissuto quella terribile esperienza, la racconta in un disperato monologo-confessione a una donna conosciuta durante una notte di confidenza a Lisbona" (A. Tabucchi).
 
Nonostante la critica letteraria mondiale lo riconosca come uno dei migliori scrittori portoghesi del momento, Lobo Antunes è poco conosciuto in Italia; non tutti i suoi romanzi sono rintracciabili in libreria. Un vero peccato perché, sin dalla lettura di “Buonasera alle cose di quaggiù” ho capito di essere di fronte ad una scrittura nuova.
Lobo Antunes ha infatti partecipato direttamente, da medico, alla guerra coloniale in Angola e con quegli occhi, quella rabbia maturata durante gli anni della guerra, ha scritto “In culo al mondo”. “Andare a morire In culo al mondo” era un modo di dire dei giovani portoghesi che partivano per la guerra in Angola sapendo di intraprendere un viaggio di sola andata.
 
La sua scrittura, discussa da molti perché ritenuta ridondante e fortemente provocatoria, è verità presente delle bassezze umane, delle ingiustizie istituzionalizzate, quelle della violenza, dell’ipocrisia, dell’estremo attaccamento umano alle convenzioni ed ai perbenismi. E’ altresì la verità cruda dei conflitti interni, quelli vissuti in solitudine, davanti ad un bicchiere di alcool o su un letto desolato o condiviso con “un altro” sconosciuto. La estrema sottile leggerezza del tempo che passa inesorabile insegnandoci che nulla è stabile ma esposto ai venti dell’ineffabile.
Quello che spesso resta, che spesso ci consola, e consola il protagonista, è la memoria, il dolore che ci abbandona temporaneamente
rendendoci felici, la solitudine ed il coraggio di farsi testimoni di situazioni estreme e disumane.
Agata Santamaria






“No, davvero, la felicità, quella condizione che viene fuori dall’impossibile convergenza di parallele tra una digestione senza acidità e l’egoismo soddisfatto e privo di rimorsi, continua a sembrarmi, a me che appartengo alla dolorosa classe di gente inquieta e triste in eterna attesa di un’esplosione o di un miracolo, qualcosa di così astratto e strano come l’innocenza, l’onore, concetti magniloquenti, profondi e in fondo vuoti che la famiglia, la scuola, la catechesi e lo stato mi avevano solennemente rifilato per potermi domare meglio, per neutralizzare, se così posso esprimermi, ab ovo, i miei desideri di protesta e di rivolta. Ciò che gli altri esigono da noi, capisce?, è di non essere messi in causa, di non scuotere le loro vite in miniatura, murate contro la disperazione e la speranza, di non rompere i loro acquari abitati da pesci sordi che fluttuano nell’acqua limacciosa della quotidianità, illuminata dalla lampada sonnolenta di ciò che chiamiamo virtù e che consiste soltanto, vista da vicino, nella tiepida mancanza di ambizioni”.
 
“Perché io sono sempre stato isolato, Sofia, durante le elementari, alle medie, all’università, all’ospedale, nel matrimonio, isolato con i miei libri troppo letti e le mie poesie pretenziose e banali, la mia ansia di scrivere e il terrore spaventoso di non essere capace, di non riuscire a tradurre con le parole ciò che avrei voluto urlare agli orecchi degli altri e che era Sono qui, Accorgetevi di me che sono qui, Ascoltatemi perfino nel mio silenzio e capite, ma non si può capire, Sofia, ciò che non viene detto, le persone guardano, non capiscono, se ne vanno, chiacchierano tra di loro lontano da noi, dimentiche di noi, e ci sentiamo come le spiagge in ottobre, senza nessuno che le percorra, che il mare assale e abbandona con il dondolio inerte di un braccio penzolante”.



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