domenica 7 novembre 2010

Parole di libertà da La Stampa 7/11/2010 - Inedito -


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La speranza è finita, è l'ora della volontà

In un clamore di forsennati sbraitanti, ognuna è pronunciata affinché non se ne oda un'altra: l'ultimo scritto del Nobel, poco prima di morire


Da martedì a giovedì di questa settimana, alla Fondazione Rockefeller di Bellagio, si terrà il convegno internazionale del Pen Club Italia «Parole di libertà», dedicato al 50° anniversario di «Writers in prison», il comitato del Pen International che si occupa degli intellettuali perseguitati. Parteciperanno scrittori e giornalisti (tra gli altri il messicano Carlos Aguilera, il malawiano Jack Mapanje, l'indiana Easterine Kire Iralu, il cinese Zhou Quing, l'albanese Visar Zhiti, la russa Julia Dobrovolskaja, l'algerino Hamid Skif, il turco Moris Fahri, oltre agli italiani Ettore Mo, Ferdinando Scianna, Maurizio Cucchi, Mimmo Cándito), alcuni dei quali porteranno le loro drammatiche esperienze personali. Contemporaneamente la casa editrice SE pubblica il volume Parole di libertà,con prefazione di Umberto Eco e interventi scritti appositamente da 18 autori. Tra questi, José Saramago, che aveva inviato il suo testo pochi giorni prima di morire, lo scorso 18 giugno. Lo anticipiamo in questa pagina.



In Portogallo si è fatto un grande abuso delle maiuscole. Nei discorsi politici, nel giornalismo, nei rituali delle inaugurazioni fervono gli Ideali, l'Umanità, la Patria e la Famiglia, il Dovere, le Scoperte; tutto ciò con frasi forbite e pompose, tanto più risonanti quanto più vacue.

Portano, quelle frasi, tutti gli ingredienti della tiritera dei raduni o dei discorsi parlamentari. E nella bocca dei professionisti della parola si unisce l'ausilio delle vibrazioni convenienti, che vanno dal tremolio pietoso allo stridore della fanfara. È un regalo per l'orecchio tanta maestria di orchestrazione. E uno squallore per l'intelligenza.

Adesso, nel circuito delle idee, è apparsa la parola speranza seguita subito dopo dalla tentazione di gonfiare la lettera iniziale mutando la s in S. È una operazione che ha a che vedere con la magia, così come è stato detto che alla magia appartenevano i graffiti preistorici delle caverne. Mettendovi la lettera grande, è come se si legasse meglio la comune speranza ai nostri buoni desideri. Si prendono lucciole per lanterne, il progetto per lavoro, il sogno per realtà. E, poiché tutto questo deve essere già accaduto a Newton, sediamoci pure sotto un melo in attesa che ci cada una mela sulla testa perché ci sia rivelata, finalmente, la nostra legge di gravità.

Come si vede, si tratta di una lezione per gente indolente, che ancora crede nella scienza infusa. Ora, da questo mio lato poco incline alle illusioni, scoprii che la retorica non è degna compagnia per gente che vuole pensare in modo serio e con il proprio cervello. Non vi è dubbio che nessuno (proprio nessuno) può gloriarsi di pensare unicamente con la propria testa. Con tante teste al mondo, e tutte pensanti, come non ricevere da loro materiale per il nostro pensiero? Per dirla meglio: il male di coloro che pensano con maiuscole è che quelle maiuscole occupino troppo spazio: mezza dozzina di esse intorpidiscono e intasano del tutto o per sempre qualsiasi cervello, anche geniale. Questo fa sì che io sia un nemico sfegatato delle maiuscole: mi piacciono (eccome!) le parole, ma vorrei renderle piccolissime, in modo che ce ne possano stare molte altre.

E vorrei anche che fossero dense, cariche di significato, di senso, di forza, di capacità di azione. Se ci mettiamo a dire e a scrivere Speranza, addio al mio monito. Cadiamo nel dondolio dell'intorpidimento, nel bagno tiepido, nelle litanie emollienti. Nel frattempo, le realtà seguiranno il loro proprio cammino, beffandosi se non servendosi di noi. E in quel caso aggiungeremo all'elenco dei nostri piagnistei un'ulteriore delusione. Poi ci siederemo sulla soglia di casa a vedere sfilare il corteo organizzato da altri facendolo passare per la nostra edificazione.

Ora, la vita è fatta di piccole e minuscole occupazioni. Una di queste è scrivere. Dal punto di vista di Sirio, neppure il viaggio dalla Terra alla Luna assume tanta importanza. Ma qui, sulla superficie terrestre, mettere una parola davanti all'altra, e in particolare in questo bugigattolo del pianeta, si rivela come operazione molto importante. Positiva o negativa che sia. Sarà positiva se ciascuna parola verrà soppesata e misurata, riconsegnata al suo vero valore – e non usata come cortina fumogena o accesso al museo di anticaglie. Sarà positiva se ridesterà in chi legge un'eco che non provenga dall'oscura condiscendenza all'illusione e all'inganno che sonnecchia sul fondo dell'inerzia in cui siamo vissuti. Sarà positiva se... E così via, senza ulteriori spiegazioni.

Dunque, questa parola speranza, con o senza maiuscola, è bene cassarla dal nostro vocabolario. Soltanto gli esuli e i profughi, rassegnati all'esilio e all'espatrio, in mancanza di meglio, la devono usare. Offre loro consolazione e conforto. I non rassegnati hanno un'altra parola più decisa: volontà. Che, per di più, può essere scritta con la maiuscola. Su ciò sarei d'accordo, se questo vi può essere d'aiuto. E ancora sulle parole potrei aggiungere quanto già dissi e scrissi in proposito in altri momenti.

Mi si offre qui l'occasione per riprendere una riflessione che più o meno recitava così: le parole sono buone. Le parole sono cattive. Le parole offendono. Le parole chiedono scusa. Le parole scottano. Le parole blandiscono. Le parole si donano, si scambiano, si offrono, si vendono e s'inventano. Le parole sono assenti. Alcune parole ci assorbono, non ci lasciano, sono come zecche: le troviamo nei libri, nei giornali, negli slogan pubblicitari, nelle sottotitolazioni, nei fogli e sui cartelloni. Le parole consigliano, suggeriscono, insinuano, ordinano, impongono, segregano, eliminano. Sono sdolcinate o pungenti. Il mondo ruota su parole lubrificate con olio di pazienza. I cervelli straripano di parole in pace e armonia con quelle loro contrarie e nemiche.

Questo è il motivo per cui la gente fa il contrario di quello che pensa, credendo di pensare quello che fa. Ci sono molte parole. E ci sono i discorsi, che sono parole accostate le une alle altre in un incerto equilibrio grazie a una sintassi precaria, fino alla chiusura finale del «Dissi» o «Ho detto». Con i discorsi si celebra, si inaugura, si aprono e si chiudono adunanze, si lanciano cortine fumogene o si collocano drappi di velluto. Sono brindisi, discorsi, discussioni e conferenze. Tramite i discorsi si trasmettono elogi, ringraziamenti, programmi e fantasie. E poi le parole dei discorsi appaiono adagiate su fogli, pitturate con inchiostro tipografico e in questo modo entrano nell'immortalità del Verbo. Accanto a José Sócrates , il presidente dell'assemblea affigge il discorso che ha aperto il rubinetto della fonte. E le parole defluiscono, fluide come il «prezioso liquido». Fluiscono ininterrotte, inondano il pavimento, salgono alle ginocchia, arrivano alla vita, alle spalle, al collo. È il diluvio universale, un coro stonato che erompe da milioni di bocche.

La Terra prosegue il suo cammino avvolta in un clamore di forsennati sbraitanti, ululanti, avvolta anche in un docile mormorio, smorzato e conciliatore. C'è di tutto fra i coristi: tenori e tenori leggeri, bassi, soprani dal do di petto facile, baritoni imbottiti, mezzo contralti. Negli intervalli, si ode il suggeritore. E tutto ciò stordisce le stelle e perturba le comunicazioni, come le tempeste solari. Perché le parole hanno smesso di comunicare.

Ogni parola è pronunciata affinché non se ne oda un'altra. La parola, anche quando non afferma, si afferma. La parola non risponde, né domanda: ammassa. La parola è l'erba fresca e verde che copre le cime aguzze dell'invaso. La parola è polvere negli occhi e occhi bucati. La parola non rivela. La parola maschera. Per questo occorre mondare le parole affinché la semina si trasformi in raccolto. Perché le parole siano strumento di morte o di salvezza. Perché la parola valga solo ciò che vale il silenzio dell'atto.

C'è anche il silenzio. Il silenzio, per sua definizione, è ciò che non si ode. Il silenzio ascolta, analizza, osserva, pondera e valuta. Il silenzio è fecondo. Il silenzio è la terra scura e fertile, l'humus dell'essere, la muta melodia sotto la luce solare. Su di esso cadono le parole. Tutte le parole.

Parole buone e parole cattive. Il grano e la zizzania. Però solo il grano dà il pane.

domenica 17 ottobre 2010

I Demonî di Fëdor Dostoevskij


FedorI Demonî di Fëdor Dostoevskij

Einaudi, 1993


Confesso di non aver mai subito particolare fascino per la letteratura russa ma questa estate un’amica mi ha raccontato dello spettacolo teatrale “I Demonî” con la regia di Peter Stein; ho iniziato così a mettere in cantiere la lettura del primo romanzo russo.

“Delitto e Castigo” di Fëdor Dostoevskij è stato il primo ma con “I Demonî” ho conosciuto il genio di Dostoevskij: i primi capitoli sono stati complicati (una massa informe di personaggi, con nomi di difficile memorizzazione) e non nascondo di aver pensato di abbandonare la lettura ma continuando ho iniziato ad apprezzare le rimanenti seicento pagine dell’edizione Einaudi (… con l’indiscutibile ausilio delle lenti da vicinanza!!)


Dostoevskij, come in “Delitto e Castigo” è ossessionato dalla lotta tra il Bene ed il Male, dalla fede come unico sigillo di felicità sulla terra ma in questo romanzo c’è anche il tema politico, la divulgazione delle idee socialiste e nichiliste nella Russia Zarista della fine ottocento.

Fëdor Dostoevskij si ispira ad un fatto di cronaca degli anni settanta: Sergej Necaev, un seguace di Bakunin, aveva creato delle cellule segrete che, con azioni dirette ed indirette, avevano il compito di preparare la rivolta finale contro lo zarismo. Un membro di una cellula volle ritirarsi dall'organizzazione e Necaev, temendo che potesse rivelare tutto, lo uccise e lo seppellì. Il delitto fu scoperto rapidamente e i responsabili condannati.

Nel romanzo Necaev diventa Petr Stepanovic, il vero Deus ex machina degli accadimenti; un mistificatore, un uomo senza scrupoli che non crede a niente, nemmeno alla stessa rivoluzione che va perseguendo. Accanto a lui il quintetto dei rivoluzionari che lo sostiene nelle azioni preparatorie. Questi sono per Dostoevskij gli amici con i quali venti anni prima aveva svolto attività politica clandestina per la quale era stato condannato ai lavori forzati. Di questi Dostoevskij svela il mancato collegamento con il popolo, pseudo intellettuali alla ricerca di gloria personale.  Stavrogin è invece il nobile viziato e annoiato dalla vita che però, nonostante abbia delle velleità rivoluzionarie ed incarni egli stesso il Demone, non lo asseconda ma gli tiene testa, riesce con estrema freddezza a farsi temere anche da Petr Stepanovic.. E’ un peccatore, della peggior specie ma è l’unico che nel corso degli avvenimenti prende coscienza dei propri “peccati”, li confessa pagandoli infine con il suicidio.

Su questo romanzo si è scritto; a me il piacere di invitarvi alla sua lettura.


Agata Santamaria


domenica 5 settembre 2010

La resurrezione di José Saramago


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“… mentre Maria, gemendo, si abbandonava col proprio corpo su quello di lui, bevendogli il grido dalla bocca, con un bacio avido e ansioso che scatenò nel corpo di Gesù un secondo e interminabile fremito”, scrive il Nobel portoghese José Saramago, in uno dei romanzi storici più celebri, Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991).

Due anni più tardi giunge la condanna unanime sia del clero cattolico sia di quello portoghese. La scomunica nei confronti del pensiero politico di un uomo che ha rivendicato il diritto par excellence dello scrittore, di un intellettuale che ha ricercato e che ha reinventato la storia, di un Autore drammatico che ha riscoperto informazioni di una realtà passata ed elusiva. Per esempio, all’epoca della morte di Gesù Cristo la crocefissione era una pratica abituale per i romani e gli uomini crocifissi furono migliaia. Secondo il clero cattolico e portoghese la colpa di José Saramago è di aver immaginato un Gesù Cristo umano, “troppo umano” avrebbe detto Nietzsche, un uomo con la dignità di uomo e per questo si ribella al principio paolino per antonomasia. A partire dalla Lettera ai Romani di San Paolo, in cui si legge “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”, il potere ecclesiastico istituisce la sua millenaria tradizione cattolico-cristiana. Condannato per eresia, José Saramago decide per l’esilio volontario nell’isola spagnola di Lanzarote.
Il poeta e romanziere, a causa di una leucemia cronica, muore il 18 giugno alle ore 13.45 nella sua residenza della città di Tías, Isole Canarie. Dopo oltre 15 anni, il Portogallo riabbraccia in extremis il corpo del filosofo narratore. Nel salone d’onore del Municipio di Lisbona, fra una numerosa schiera d’intellettuali e politici e un incessante scroscio di applausi, le corone inviate da Castro e le lacrime dignitose della moglie Pilar, il corpo di José Saramago brucia nella camera ardente. Fuori, il saluto di centinaia di pugni alzati. Nel frattempo le agenzie di stampa battono un’altra notizia. Più che una notizia, un attacco diretto dal quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore romano, traverso cui prende alito l’anatema nei confronti del pensiero critico dello scrittore portoghese da parte dell’intera gerarchia della Chiesa cattolica, senza alcuna misericordia. Mentre la bara di uno dei più bravi scrittori del XX e del XXI secolo si sta per chiudere, il Vicario di Cristo in terra e la sua Chiesa, quella ufficiale con gli ermellini di porpora e le pantofoline, le Mercedes blindate e gli anelli d’oro all’indice, come il vecchio Dio onnipotente, strillano vendetta.
“L’onnipotenza (presunta) del narratore” intitola il pubblicista della Santa Sede. Sull’articolo del Vaticano si legge il giudizio sulla mente di José Saramago, “uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro, di nessuna ammissione metafisica, collocato dalla parte della zizzania e inchiodato pervicacemente al materialismo storico, alias marxismo”. Già nel 1998, il Vaticano aveva sollevato un vespaio di polemiche a causa del Premio Nobel per la letteratura insignito a uno scrittore dissacrante, eretico, ribelle nei confronti del principio – di per sé paradossale - della tirannia dell’opinione pubblica del gregge: la sottomissione alla Chiesa paolina. Proprio a quel tempo, ispirato dalla sua contraddistinta ironia, divertente in alcuni casi fino allo spasimo, e animato da quel genio poetico esclusivo dei grandi rivoluzionari della storia, José Saramago rilasciò una dichiarazione che oggi ha tutto il sapore di una profezia: “Bisogna attendere con pazienza che, dalle circostanze, nasca una qualche idea più profonda di solidarietà”.
Attraverso un’attenta analisi dell’ultimo periodo della vita creativa dello scrittore, rileggendo le opere fondamentali a partire da Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991), non si può non percepire l’intenzione storica e politica degli scritti di José Saramago: l’uguaglianza e la solidarietà tra Dio e l’uomo, attraverso la ri-umanizzazione del Sacro. Un intento che si rifà a un insieme di valori fondamentali e imprescrittibili, di principi che hanno contraddistinto l’orientamento critico dei gradi maestri del pensiero politico dell’Ottocento, da Feuerbach a Marx, leggendo Nietzsche fino allo stesso Stirner. Col suo inconfondibile carisma di narratore di razza, consapevole di vivere nell’epoca della morte di Dio, José Saramago tenta di avvicinare la sacralità ad una percezione storica e realistica dell’uomo: “Come tutti i figli degli uomini, il figlio di Giuseppe e Maria nacque sporco del sangue di sua madre, vischioso delle sue mucosità e soffrendo in silenzio. Pianse perché lo fecero piangere, e avrebbe pianto per quest’unico e solo motivo”.
Ispirato dai filosofi dell’Ottocento, il poeta portoghese racconta storie sostenute da immaginazione, realismo, compassione e ironia. José Saramago rivendica valori che s’incarnano in una prosa irriverente verso l’autorità, profondamente intrisi di umanesimo, nell’intenzione di risanare la frattura tra Dio e l’uomo. L’alienazione materiale dell’uomo da Dio compiuta a cominciare dall’istituzione dell’ordine e del privilegio ecclesiastico paolino. Il distacco, sostiene Canetti, è indice per antonomasia della posizione del comando. Il rapporto verticale tra Dio il pastore e gli uomini il suo gregge declina più lucidamente a rapporto di potere padrone-servitore. Di conseguenza l’uomo si ritrova estraneo non solo rispetto a Dio ma altresì rispetto a se stesso.
Il Gesù di Saramago si ribella contro tale frattura, contro l’ordine gerarchico, la corruzione, l’ordinamento, la formula, contro la divisione degli uomini in dominanti e dominati. Nella sua visione l’Autore rispetta e s’innamora della figura storica o favolosa non importa ma di certo umanizzante di Gesù Cristo. Di fronte all’affermazione di Maria di Magdala: “Guarderò la tua ombra se non vuoi che io guardi te”, il Gesù di Saramago risponde: “Voglio essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi”. Il sentimento e la passione di Dio assumono in Saramago forma umana nella figura di Gesù Cristo, un uomo che ama, soffre e ha paura come ogni uomo. Al contrario dei detentori dell’autorità politica, religiosa e morale, che a suo tempo hanno crocifisso la dignità e la solidarietà di Cristo in nome della Legge, o di coloro che dall’Ottocento fino a oggi - direbbe Nietzsche - hanno trasformato le Chiese nei sepolcri di Dio.
A proposito della variopinta gerarchia di scribi del vangelo secondo Ratzinger, in specie dell’amanuense del papa autore dell’articolo sull’Osservatore Romano, non si può non ricordargli i dogmi della dottrina cristiano paolina. Secondo San Paolo l’onnipotenza di Dio è tale da istituire un’autorità politica, ma non perché l’autorità si debba considerare come inviata personalmente da Dio o perché ogni sua azione è da considerarsi come buona. Piuttosto perché Dio stesso, per il bene degli uomini, secondo San Paolo, insegna l’importanza dell’autorità nella vita civile. Lo sottolinea nel suo modo singolare José Saramago: “È pur vero che Dio sceglie di potere ciò che può Cesare, ma Cesare non può nulla di fronte al potere di Dio”. Ed è l’autorità politica - come dichiara lo stesso Saramago - a ispirare Il vangelo secondo Gesù Cristo, quando Erode il Grande, re della Giudea, ordina il massacro dei bambini allo scopo di uccidere Gesù. Si chiede Saramago, “Come può Dio inviare il proprio figlio sulla terra allo scopo di farlo sgozzare a pochi mesi?”.
L’autorità politica, secondo San Paolo, è costituita in modo legittimo poiché “è al servizio di Dio per il bene, […] e per la giusta condanna di chi opera il male”. Un’affermazione di cui non è stato convinto nella suo pellegrinaggio ad Auschwitz nemmeno il papa, fra lo stupore dei presenti. Ne fa nota il Nobel portoghese alla presentazione della mostra di Sofía Gandaris dedicata a Kafka: “Dov’era Dio?” si è chiesto Ratzinger, “Dio non è qui” ha risposto la pittrice con uno dei suoi dipinti, accompagnata da un sottofondo di musiche di Dvorák e Mahler.
Di contro alla figura di un Dio vendicativo, egoista, interessato all’onnipotenza e distante dagli uomini, responsabile altresì delle loro sofferenze, sono schierati alla stregua di Saramago pedagoghi del pensiero critico ottocentesco, intellettuali del calibro di Feuerbach, Marx, Nietzsche, Stirner. Se l’alienazione tra Dio e l’uomo è considerata non una perdita ma un arricchimento dell’uomo medesimo per Hegel, Feuerbach rovescia la posizione hegeliana trasformando la teologia in antropologia, lo studio di Dio nell’autoconoscenza dell’uomo. In quanto patologia psichica causa d’immiserimento, la religione sarà oltrepassata traverso una presa di consapevolezza graduale dell’uomo, tale da smascherare i dogmi di secoli di storia e ritrovare Dio dentro se stesso.
Marx rettifica e approfondisce le tesi di Feuerbach, concependo l’uomo non astratto e astorico ma concreto e storicamente determinato, analizzando la religione non come forma di autocoscienza dell’uomo ma fonte della sua assoggettazione. Per Marx il Dio ecclesiastico è l’espressione specifica del dominio della borghesia e del capitale, un Dio alienato dall’uomo nello stesso modo in cui “l’operaio si viene a trovare estraneo rispetto al prodotto del suo lavoro”. Un Dio autoritario che muore nel pensiero sferzante di Nietzsche, che di conseguenza lascia trasparire le auto-contraddizioni della morale: “Il mondo dei concetti morali «colpa», «coscienza», «dovere», «sacralità del dovere» ha il suo focolare d’origine - i suoi inizi, come gli inizi di ogni autorità terrena sono stati a fondo e lungamente irrorati di sangue”. La morte di Dio apre l’epoca nichilistica, il tempo in cui Stirner proclama la libertà anarchica del singolo, di un uomo fine a se stesso che non ripone causa né in Dio né nello Stato né nella Chiesa, ma unico proprietario della potenza: “Nell’Unico, il possessore si dissolve nel Nulla creatore dal quale è nato”. A questo punto riecheggiano in funzione critica le parole del Dio del Vaticano nel momento preciso in cui si presenta a Caino che risponde, nell’omonima opera del filosofo-narratore José Saramago: “Sono il signore sovrano di tutte le cose, E di tutti gli esseri, dirai, ma non di me né della mia libertà”.
Saramago immagina nelle sue opere un Dio più autentico che rinasce nell’epoca della morte di Dio, la storia del nichilismo e delle ideologie millenaristiche, un Dio che risorge nel momento in cui di-svela il valore della sua carica umanizzante, con le ansie, le sue angosce, le sue paure e i suoi tormenti. In questo modo leggiamo non “l’onnipotenza presunta del narratore” ma l’onnipotenza narratrice di un Dio che si fa Uomo, non una “destabilizzante banalizzazione del sacro” ma una rivalorizzazione sacra e morale dell’uomo, temi cari all’Autore portoghese sin dal suo primo scritto, Terra del peccato (1947), un’opera messa all’indice dalla Pide, la polizia politica del regime dittatoriale di António Salazar.
Per Saramago l’eternità è quella di un eterno non essere. Allora, sulla falsariga di Eco si può concertare che l’ateismo militante del Nobel portoghese non è in polemica contro Dio, ma contro le religioni ideologiche e politiche che fanno di Dio il pretesto per giustificare stragi, violenze fisiche e spirituali. A cominciare dalla Chiesa paolina, che ha ispirato principi religiosissimi e conniventi ai regimi di Mussolini in Italia, di Salazar in Portogallo, di Franco in Spagna, di Pinochet in Cile, di Videla in Argentina, che ha taciuto, di più ha favorito la fuga del capitano delle SS Priebke e di altre centinaia di criminali nazisti. Senza dimenticare che sulle bandiere naziste o “uncinate” – per riprendere un termine caro all’amanuense del papa - stava scritto Gott mit uns, cioè “Dio è con noi”, che gli attentatori delle Twin Towers erano musulmani, che Bush ha invaso l’Iraq canticchiando le note patriottiche americane della canzone God Bless America. E non voglio ricordare il periodo dell’età buia medioevale. Scrive Eco nella prefazione a Il Quaderno: “Per cui mi viene da riflettere che forse (se talora la religione è o è stata l’oppio dei popoli) più spesso ne è stata la cocaina. Credo che anche questa sia l’opinione di Saramago e gli regalo la definizione”.
In relazione a Il Quaderno, non posso glissare sulla “querelle” fra Einaudi e José Saramago riguardo alla pubblicazione e alla censura da parte del proprietario della casa editrice e primo ministro Berlusconi. L’interessamento introspettivo di carattere storico sociale dell’opera nei confronti dell’Italia da parte del Nobel getta una luce chiara sull’arbitrio e – avrebbe detto Saramago - sulla “Cecità” che come patologia colpisce chi sottrae la sovranità democratica al popolo per amministrare i propri affari da Dio. Sicché mi sento in dovere morale di solidarizzare personalmente con l’appello inoltrato dal Nobel, costretto a pubblicare con Bollati Boringhieri: “In effetti, nel paese della mafia e della camorra, che importanza potrà mai avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente? In un paese in cui la giustizia non ha mai goduto di buona reputazione, che cosa cambia se il primo ministro fa approvare leggi a misura dei suoi interessi, tutelandosi contro qualsiasi tentativo di punizione dei suoi eccessi e abusi di autorità?”.
Così, la censura e la messa all’indice dei testi, in cui sono racchiuse le parole critiche di un uomo per genealogia annoverato alla grande famiglia degli aristocratici dello spirito, cioè di pensatori schierati dalla parte dei “deboli” contro le strutture di potere politico paoline, risuonano come un’ellenica benedizione. Si pensi che i valori rivendicati dal Nobel portoghese hanno ispirato il secolo prima uno tra i poeti e filosofi eraclitei più forti e vitali. Nei confronti delle polemiche illegittime e immorali da parte dell’autorità religiosa e politica, Nietzsche scrive: “Getterò il papa in prigione e farò fucilare Guglielmo, Bismark e Stöcker».
Familiarizzando con Nietzsche, Juan José Tamayo, il teologo e fondatore dell’Associazione dei teologi Giovanni XXIII, sostiene di buon grado che sia il filosofo tedesco sia il Nobel portoghese convengono su un punto essenziale. L’idea che la morte di Dio non significa che Dio prima era vivo e finalmente è morto, ma che il concetto di Dio è diventato vuoto, passivo, decadente, ha perso la sua parte attiva, la potenza, in una parola, la vita. “Dio è il silenzio dell’universo e l’essere umano è il grido che dà senso a tale silenzio”, ricorda il teologo al romanziere portoghese e alla pittrice Sofia Gandarias, durante una passeggiata per le strade di Siviglia. E Tamayo, animato da un apprezzabile senso morale, si dichiara personalmente d’accordo con Saramago nell’affermare che “La storia degli uomini è la storia dei loro mancati incontri con Dio: né lui c’intende né noi lo intendiamo”.
Alla perdita di significato del concetto di Dio consegue, secondo Saramago, l’insignificanza sia del nome della persona sia della persona stessa. Nel testo Tutti i nomi, l’Autore immagina un mondo in cui i personaggi non hanno un nome, poiché se gli uomini conoscono il nome che gli hanno dato, non conoscono quello che hanno. Alla Conservatoria Generale dell’Anagrafe, la costruzione dove si archiviano TUTTI i nomi dei vivi e dei morti, lavora il Signor José, l’unico personaggio della storia a conservare un nome, il personaggio simbolo della violazione della legge della maggioranza e della spinta verso il cambiamento, della differenziazione rispetto al conforme, della speranza.
Saramago, iniziatore di quell’originalissima “scrittura orale” che contraddistinguerà il suo stile, persegue la sua riflessione nella distopia La caverna. Immagina un Dio nei panni del vasaio Cipriano Algor, una professione allegoricamente simile a quella di colui che plasmò l’uomo dal fango soffiandoci sopra lo spirito vitale. Ma un Dio depotenziato e delegittimato dal Centro, l’entità disumanizzante dell’opera. Una città Centro commerciale non edificata per l’uomo ma contro l’uomo stesso, epifania del potere capitalista che si maschera dietro ai principi partitocratici delle democrazie Occidentali. Cipriano Algor “aveva visto cadere una maschera e aveva capito che dietro ce n’era un’altra esattamente uguale, capiva che le maschere successive sarebbero state fatalmente identiche a quelle già cadute, è vero che il segreto dei segreti non esiste, ma loro lo conoscono”.
Traluce l’insegnamento di etica solidale del pensiero storico ma soprattutto pedagogico dello scrittore portoghese, di un uomo che ha dichiarato di restare fedele fino alla fine dei suoi giorni ai valori del comunismo, “ma non parlatemi di stalinismo: l’ho sempre condannato. Il comunismo, per me, è di natura ormonale. Oltre all’ipofisi, io ho nel cervello una ghiandola che secerne ragioni affinché io sia stato e continui a essere comunista. Quelle ragioni le ho trovate, un giorno, condensate in un motto de La Sacra Famiglia di Marx e Engels: Se l’uomo è formato dalle circostanze, bisogna formare le circostanze umanamente. Le circostanze non le ha formate umanamente lo stalinismo, né tanto meno le formerà mai il capitalismo, che è pervertito per definizione. Dunque il mio cervello continua a secernere ormoni”. Dove per comunismo s’intende non uno stato di cose che debba essere instaurato, ma un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Per José Saramago il mestiere dello scrittore oggi, la sua resurrezione, non è creare ma riconsegnare dignità alle parole, far risorgere il senso reale e storico di parole eclissate come democrazia, diritti, solidarietà, speranza, piuttosto che Chiesa, Stato, Ratzinger, Berlusconi. Il romanzo è appunto il luogo in cui si può imparare a lottare contro la progressiva perdita di significato delle parole, del nome della persona e della persona stessa. La scrittura è da intendersi come uno spazio aperto, oceanico, in cui confluiscono diversi fiumi di parole non più cieche ma capaci di vedere la vera immagine dell’inferno, del mondo dominato dal Mercato in cui viviamo. E lo scrittore è colui che ha ben presente lo stato di cose: “In altre e più chiare parole, dico che i popoli non hanno eletto i loro governi perché li «portassero» al Mercato, ma è il Mercato che condiziona in ogni modo i governi perché gli «portino» i popoli. E se parlo così del Mercato è perché è lui, oggi, e sempre di più ogni giorno che passa, lo strumento per eccellenza dell’autentico, unico e indiscutibile potere, il potere economico e finanziario mondiale, che non è democratico perché non lo ha eletto il popolo, che non è democratico perchè non è retto dal popolo, che infine non è democratico perché non mira alla felicità del popolo. Il nostro antenato delle caverne direbbe: «È acqua». Noi, un po’ più saggi, avvertiamo: «Sì, ma è inquinata»”.
Il caro amico di Saramago, Giancarlo Depretis, professore ordinario di letteratura spagnola a Torino, traduce un intervento del Nobel riguardo al tempo della morte di Dio e dell’insignificanza che assunto determinate parole. Nei discorsi politici, sulle stampe giornalistiche, parole come Umanità, Patria, Dovere, sono intenzionalmente pompate, curate con effetti speciali che vanno dal “tremolio pietoso” allo “stridore della fanfara” della voce, rigonfiate chirurgicamente con lettere maiuscole per dare senso al gregge che non pensa col suo cervello. Non confondete le “lucciole per le lanterne”, ammonisce Saramago.
Oggi va di moda nella panoramica delle idee la parola speranza, ma scritta: Speranza. Così scritta, con la S maiuscola, smarrisce il suo valore, così per Dario Fo il giorno seguente la morte di Saramago: “"Hoy a mí me falta todo, me han arrancado un trozo de vida”, così per uno dei suoi allievi Saviano: “Saramago era la esperanza de cambiar las cosas”, così per la moglie Pilar: “José Saramago escribía libros y abría puertas por las que transitamos hacia una cultura, otros escritores, un modo de entender la vida, un país(34)”, così per tutti noi che siamo stati “vicini” e continueremo ad esserlo, a José Saramago.
Per il Nobel portoghese la speranza ha a che fare con qualcosa di tremendamente vicino con la libertà reale ed effettiva e non apparente della persona, con un pensiero critico in continua evoluzione e non dogmatico, con l’individualità spontanea educata per vivere in una comunità, con un’etica di solidarietà chiamata comunismo. Sepulveda ricorda che per Saramago essere comunista nel XXI secolo é una “questione di etica di fronte alla storia, non è ideologia ma intendere la solidarietà come un fatto collegato al vivere(35)”. Solidarietà, che non vuol dire atto di carità o forma di altruismo, ma piuttosto un nobile sacrificio inseparabile dal desiderio di lotta per la liberazione dell’uomo. Di certo è anacronistico parlare di lotta di classe, ma non di capitalismo globalizzato e soprattutto di sfruttamento sociale. In quest’ampia categoria che comprende tutti coloro il cui lavoro è direttamente o indirettamente sfruttato, si può ricercare analiticamente la formazione del proletariato post moderno in quanto classe. Qui forse si dovrebbe trovare la sinistra. Ne fa nota Saramago ne Il Quaderno(36), nell’ottobre del 2008, quando comprende che Marx non ha mai avuto tanta ragione come oggi, e si chiede, come molti, “Dove sta la Sinistra?”. Dove c’e il silenzio e si è capaci di ascoltare la voce della giusta indignazione dell’uomo, avrebbe detto William Blake. Una di queste è la voce stessa di José Saramago. Un’altra è la voce di tutti coloro che raccontano la sua resurrezione.

A cura di Marco Purita
Da: http://www.josesaramago.org/detalle.php?id=891


venerdì 18 giugno 2010

A José Saramago - 18 giugno 2010


GirasoleGirasole














Ho terminato la lettura de “Le intermittenze della morte” lunedì scorso e stavo prendendo tempo per parlarvi di questo romanzo di Saramago, tra i suoi più belli. Ma stasera, adesso che l’emozione va riducendosi, ho deciso di dedicare le ultime frasi del romanzo, svelandone il finale. A lui, perché con lui va via una mente illuminata.
 


“Lui si addormentò, lei no. Allora lei, la morte, si alzò, aprì la borsa che aveva lasciato in salotto e prese la lettera di colore viola. Si guardò intorno come se stesse cercando un posto dove lasciarla, sul pianoforte, infilata tra le corde del violoncello, oppure lì in camera, sotto il guanciale su cui riposava  il capo dell’uomo. Non lo fece. Andò in cucina, accese un fiammifero, un umile fiammifero, lei che avrebbe potuto distruggere il foglio di carta con lo sguardo, ridurlo a una polvere impalpabile, lei che avrebbe potuto appiccargli fuoco solo con il contatto delle dita, e invece era un semplice fiammifero, un fiammifero comune, il fiammifero di tutti i giorni, che faceva bruciare la lettera della morte, quella lettera che solo la morte poteva distruggere. Non rimasero neanche le ceneri. La morte tornò a letto, si abbracciò all’uomo e, senza ben capire quel che stava succedendo, lei, che non dormiva mai, sentì che il sonno le faceva calare dolcemente le palpebre. Il giorno seguente non morì nessuno”. 
     
 A presto José

lunedì 31 maggio 2010

Fra due omicidi di Aravind Adiga


fradueomicidiAravind Adiga
Fra due omicidi, Einaudi 2010


I due omicidi sono quelli di Indira Gandhi, assassinata nel 1984, e di suo figlio Rajiv, sempre assassinato nel 1991. Aravind Adiga ambienta le brevi storie in questo periodo storico. Il 1991, come lui stesso afferma, è stato l’anno in cui l’India si è aperta ai mercati internazionali: “Quando ero ragazzo, la società indiana era chiusa, caratterizzata da un'economia di tipo socialista dove ogni cosa era controllata dal governo. Nel 1991 tutto è cambiato, l'economia è stata liberalizzata e ciò che è chiamato la nuova India ebbe inizio…” Una dichiarazione che accende numerosi dubbi, soprattutto se sia vero che il capitalismo porti con sé democrazia, crescita economica e sviluppo sociale, come da sempre si crede.

Kittur, la città immaginaria di Adiga, vive tutte le contraddizioni dell’India moderna, dall’estrema ricchezza all’estrema povertà; dall’esterno, per degli immaginari turisti, Kittur potrebbe sembrare una città ideale in cui convivono genti di differenti religioni, razze e lingue ma avvicinandosi ai luoghi e vivendoli appieno ci si accorge che non è così. I bambini sono sfruttati, le donne maltrattate, gli uomini costretti a fare lavori disumani, pagati a malapena. Per non parlare della vita sociale, profondamente provata dal sistema delle caste, formalmente abolito ma nella realtà ancora strumento di prevaricazione delle classi privilegiate. La solitudine dei pochi che sperano ancora in un cambiamento culturale è disarmante; la corruzione delle istituzioni che blocca lo sviluppo economico della città fa da sfondo alla delusione ed alla rassegnazione.
Poche parole, soprattutto per chi come me conosce poco del continente indiano. Lo consiglio perché è un libro vero, non è un Millionaire, non è un libro che respira false speranze di riscatto; è una fotografia con lo zoom al massimo senza giochi d’ombre.

A cura di Agata Santamaria


aravind_adiga






Intervista ad Aravind Adiga:

http://archiviostorico.corriere.it/2010/gennaio/16/Solo_India_sono_uno_
scrittore_co_9_100116101.shtml

 
Forse non tutti sanno che il sistema delle caste è stato introdotto in India dagli europei:
http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/c/c096.htm
 

 

sabato 6 marzo 2010

In culo al mondo di António Lobo Antunes


in culo al mondoIn culo al mondo di António Lobo Antunes
Titolo originale: “Os cus de Judas”






"Una guerra. Una sporca guerra. La guerra coloniale in Africa voluta e condotta dalla dittatura salazarista dagli anni '60 fino al '74, contro i movimenti di liberazione della Guinea, del Mozambico e dell'Angola. E in questo romanzo proprio di Angola si parla, terre della fine del mondo dove un'intera generazione di portoghesi ha vissuto atroci esperienze, ha perduto le illusioni ma forse ha acquisito una coscienza politica e civile. Eppure è una ferita che a stento si rimargina, e forse a rimarginarla, per elaborarne il lutto, un Io narrante che sul fronte della guerra ha vissuto quella terribile esperienza, la racconta in un disperato monologo-confessione a una donna conosciuta durante una notte di confidenza a Lisbona" (A. Tabucchi).
 
Nonostante la critica letteraria mondiale lo riconosca come uno dei migliori scrittori portoghesi del momento, Lobo Antunes è poco conosciuto in Italia; non tutti i suoi romanzi sono rintracciabili in libreria. Un vero peccato perché, sin dalla lettura di “Buonasera alle cose di quaggiù” ho capito di essere di fronte ad una scrittura nuova.
Lobo Antunes ha infatti partecipato direttamente, da medico, alla guerra coloniale in Angola e con quegli occhi, quella rabbia maturata durante gli anni della guerra, ha scritto “In culo al mondo”. “Andare a morire In culo al mondo” era un modo di dire dei giovani portoghesi che partivano per la guerra in Angola sapendo di intraprendere un viaggio di sola andata.
 
La sua scrittura, discussa da molti perché ritenuta ridondante e fortemente provocatoria, è verità presente delle bassezze umane, delle ingiustizie istituzionalizzate, quelle della violenza, dell’ipocrisia, dell’estremo attaccamento umano alle convenzioni ed ai perbenismi. E’ altresì la verità cruda dei conflitti interni, quelli vissuti in solitudine, davanti ad un bicchiere di alcool o su un letto desolato o condiviso con “un altro” sconosciuto. La estrema sottile leggerezza del tempo che passa inesorabile insegnandoci che nulla è stabile ma esposto ai venti dell’ineffabile.
Quello che spesso resta, che spesso ci consola, e consola il protagonista, è la memoria, il dolore che ci abbandona temporaneamente
rendendoci felici, la solitudine ed il coraggio di farsi testimoni di situazioni estreme e disumane.
Agata Santamaria






“No, davvero, la felicità, quella condizione che viene fuori dall’impossibile convergenza di parallele tra una digestione senza acidità e l’egoismo soddisfatto e privo di rimorsi, continua a sembrarmi, a me che appartengo alla dolorosa classe di gente inquieta e triste in eterna attesa di un’esplosione o di un miracolo, qualcosa di così astratto e strano come l’innocenza, l’onore, concetti magniloquenti, profondi e in fondo vuoti che la famiglia, la scuola, la catechesi e lo stato mi avevano solennemente rifilato per potermi domare meglio, per neutralizzare, se così posso esprimermi, ab ovo, i miei desideri di protesta e di rivolta. Ciò che gli altri esigono da noi, capisce?, è di non essere messi in causa, di non scuotere le loro vite in miniatura, murate contro la disperazione e la speranza, di non rompere i loro acquari abitati da pesci sordi che fluttuano nell’acqua limacciosa della quotidianità, illuminata dalla lampada sonnolenta di ciò che chiamiamo virtù e che consiste soltanto, vista da vicino, nella tiepida mancanza di ambizioni”.
 
“Perché io sono sempre stato isolato, Sofia, durante le elementari, alle medie, all’università, all’ospedale, nel matrimonio, isolato con i miei libri troppo letti e le mie poesie pretenziose e banali, la mia ansia di scrivere e il terrore spaventoso di non essere capace, di non riuscire a tradurre con le parole ciò che avrei voluto urlare agli orecchi degli altri e che era Sono qui, Accorgetevi di me che sono qui, Ascoltatemi perfino nel mio silenzio e capite, ma non si può capire, Sofia, ciò che non viene detto, le persone guardano, non capiscono, se ne vanno, chiacchierano tra di loro lontano da noi, dimentiche di noi, e ci sentiamo come le spiagge in ottobre, senza nessuno che le percorra, che il mare assale e abbandona con il dondolio inerte di un braccio penzolante”.



domenica 7 febbraio 2010

A Flor Máis Grande do Mundo (José Saramago)

Mafalda Arnauth



Minha laranja amarga e doce
meu poema
feito de gomos de saudade
minha pena
pesada e leve
secreta e pura
minha passagem para o breve breve
instante da loucura.


Minha ousadia
meu galope
minha rédea
meu potro doido
minha chama
minha réstia
de luz intensa
de voz aberta
minha denúncia do que pensa
do que sente a gente certa.


Em ti respiro
em ti eu provo
por ti consigo
esta força que de novo
em ti persigo
em ti percorro
cavalo à solta
pela margem do teu corpo.


Minha alegria
minha amargura
minha coragem de correr contra a ternura.


Minha laranja amarga e doce
Minha espada
Poema feito de dois gomos
Tudo ou nada
Por ti renego
Por ti aceito
Este corcel que não sossega
A desfilada no meu peito


Por isso digo
canção castigo
amêndoa travo corpo alma amante amigo
por isso canto
por isso digo
alpendre casa cama arca do meu trigo.


Minha alegria
Minha amargura
minha coragem de correr contra a ternura.

sabato 30 gennaio 2010

Una terra chiamata Alentejo

una terra1Una terra
chiamata Alentejo
di José Saramago
1980


Una terra chiamata Alentejo di José Saramago ha svegliato la memoria dei racconti di mio padre che raccontava di suo padre che raccontava di suo nonno, della fatica del coltivare la terra non propria in cambio di poco, della bruttura della vita, dell’ignoranza, della mancanza di tutto.

Racconta il romanzo della storia dell’Alentejo, regione agricola portoghese, e di ben quattro generazioni della famiglia Mau Tempo vissute nel latifondo: dagli inizi del XX secolo al 1974, anno della rivoluzione dei garofani e della definitiva fine del regime salazarista.


Il latifondo, per definizione una estesa zona di terreno agricolo utilizzata per colture estensive, si distingueva per essere di proprietà di pochi contro i molti, i braccianti, che lo coltivavano pagati a giornata. Perché è stato uno strumento di potere, in tutta l’Europa fino al XIX secolo? Perché ha resistito in alcuni paesi, come l’Italia, la Spagna, la Russia, fino al secondo dopoguerra? In Portogallo persino fino alla fine della dittatura di Salazar nel 1974?


Ha resistito fino al crollo dei sistemi politici assolutisti dove la ricchezza legata al possesso della terra era poco distribuita. Nel Sud Italia i latifondisti erano gli aristocratici borboni che mantennero i loro privilegi legati al possesso ed allo sfruttamento della terra anche dopo la formazione del Regno d’Italia. Da questi il Governo del Nord aveva il consenso politico e non certo dai braccianti, poco istruiti e trattati alla stregua di bassa manovalanza. E lo sanno e lo ricordano i nostri padri o i nostri nonni ancora, quando finalmente hanno cominciato ad occupare le terre, dalla Puglia, alla Calabria alla Sicilia e a poter dire coltivo e quindi posseggo e quindi decido.


La povertà del popolo portoghese di Saramago, Levantado do Chão – alzato da terra (titolo originale del romanzo) si intreccia con la dignità, con il desiderio di riscatto, con la triste e inevitabile costrizione all’obbedienza alle leggi del potere gestito da uno Stato militarista, con la PIDE, la polizia di regime, atroce e disumana, con la “Chiesa temporale” predicante la rassegnazione e l’oblio della sofferenza e del dolore terreno.


Ma gli uomini e le donne curve, consumati dalla fatica, con in mano niente, in tasca rimasugli di cibo e di tabacco, sono paragonati da Saramago a formiche con la testa alzata…. testimoni delle atrocità, impotenti ma con una grande memoria dei fatti, dei nomi, delle vie percorse dall’ingiustizia! La memoria storica è importante, ricorda Saramago, perché chi è stato crudele non pensi di essere dimenticato e ogni filo, prima o poi, si congiunge alla sua origine a formare un cerchio.


Saramago è duro e crudele con chi lo merita e parla della dittatura, dei morti per fatica, penuria o per mano della polizia nel rispetto dei particolari; trasforma i vinti in uomini felici e lo fa con coraggio e grande speranza.


[…] Il mondo con tutto il suo peso, questa palla senza inizio né fine, coperta di mari e di terre, tutta segnata da fiumi, torrenti e rigagnoli, dove scorre l'acqua chiara che va e viene ed è sempre la stessa, sospesa nelle nuvole o nascosta nelle sorgenti sotto grandi strati sotterranei, il mondo che sembra una bruttura vagante nel cielo, o una trottola silenziosa, come un giorno lo vedranno gli astronauti, e come noi possiamo già anticipare, il mondo visto da Monte Lavre, è una cosa delicata, un orologio che può sopportare solo quel po’ di corda e non un giro di più, e si mette a tremare, a palpitare, se un pollice si avvicina al bilanciere, se sfiora, anche solo lievemente, la molla a spirale, anelante come un cuore. Un orologio è solido nella sua cassa brunita...
Ma se gli tolgono l'involucro, se il vento, il sole e l'umidità cominciano ad agire e a colpire l'orologio all'interno, fra i rubini e gli ingranaggi, chiunque di voi ci può scommettere, sicuro di vincere, che sono finiti i giorni gloriosi. Visto da Monte Lavre, il mondo è un orologio aperto, con le budella al sole, in attesa che arrivi la sua ora.
Agata Santamaria

Levantado do Chao
Uma terra chamada Alentejo José Saramago, tem despertado as memórias de histórias que meu pai me disse de seu pai, que disse de seu avô, o labor de cultivar a terra não possuíam em troca de pouco, a feiúra da vida, da ignorância, falta de tudo.

O romance conta a história do Alentejo, região agrícola Português, e quatro gerações da família já morou em fazendas Mau: a partir do início do século XX até 1974, ano da Revolução dos Cravos eo fim do regime de Salazar.

O latifúndio, por definição, uma extensa área de terras utilizadas para o cultivo extensivo, a distinção de ser propriedade de poucos contra muitos trabalhadores que cultivavam a pagar pelos dias. Porque foi um instrumento de poder, em toda a Europa até o século XIX? Porque ele tem resistido em alguns países, como Itália, Espanha, Rússia, após a II Guerra Mundial?
Em Portugal, até o fim da ditadura de Salazar em 1974?

Ele resistiu até o colapso do sistema político absolutista, onde a riqueza ligada à posse da terra foi distribuída em breve. No sul da Itália, foram os latifundiários aristocratas Bourbons que manteve seus privilégios relacionados à posse e à exploração da terra, mesmo após a formação do Reino da Itália. A partir destes, o Governo do Norte tinha o consenso político e não por trabalhadores rurais, mal educado e tratados como os trabalhadores não qualificados.
E eu sei e lembro os nossos pais ou nossos avós ainda, quando finalmente começou a ocupar as terras, de Puglia, Calábria e Sicília para cultivar e, portanto, ser capaz de dizer que eu próprio e depois decidir.

A pobreza do povo Português Saramago, Levantado do Chão - levantado da terra (título original do romance) está entrelaçada com a dignidade, o desejo de compra, com a compulsão triste e inevitável a obediência às leis do poder mantida por um Estado
militarista, com a PIDE, o regime de polícia, atroz e desumana, com o tempo da Igreja "pregação el'oblio demissão do sofrimento e da dor terreno.

Mas os homens e mulheres cantos, desgastado com a fadiga, sem nada na mão, bolso restos de comida e tabaco, estão ligados por Saramago às formigas com a cabeça erguida. ... testemunhas da atrocidade, impotente, mas com uma grande memória para fatos, nomes, as rotas percorridas pela injustiça!
A memória histórica é importante, lembra-se de Saramago, porque quem não acha que foi cruel para ser esquecido e cada fio, mais cedo ou mais tarde, ingressou na sua origem para formar um círculo.

Saramago é dura e cruel para quem a merece, e fala da ditadura, morreu de cansaço, falta, ou nas mãos da polícia, em conformidade com os detalhes; transforma perdedores em pessoas felizes e fá-lo com coragem e esperança.