venerdì 21 novembre 2008

A mio padre...

folglie


Vendemmia pugliese, 1975


 


I sogni di quella guerra ormai lontana nei quali Vito si ritrova tutte le notti spossano la sua anima e il suo corpo. Poi, alla mattina, tutto si acquieta lasciando spazio alla realtà, al pensiero per i suoi figli così amaramente amati. Quest’anno l’uva da tavola, spedita in alta Italia e al mercato generale di Napoli, ha reso tanto e Vito è soddisfatto.


I caldi giorni estivi sono passati e adesso non resta che vendemmiare i piccoli dolcissimi grappoli lasciati sulla vite.  Li chiamano i racioppi.


Lo zucchero caldo che scende sulle braccia durante la loro raccolta è un piatto prelibato per le api e non lascia requie perché a fine giornata le braccia sono consumate dal continuo sfregamento nel tentativo di scacciare inutilmente gli sgraditi ospiti a pranzo!


“Bene - pensa Vito - anche quest’anno dovrò mettere su una squadra composta dai miei figli e dai miei nipoti; dovrò anche contattare la cantina sociale per vendere i sei o sette quintali di uva da vino e dopo finalmente avrò finito la campagna”.


Dal mare in lontananza una brezza leggera e profumata e, in ginocchio tra le viti, fumando la sua “ultima sigaretta”, Vito pensa a come dovrà investire i soldi guadagnati e soprattutto se ce la farà a sopportare un nuovo anno di lavoro.


È sempre preoccupato per la sua salute, a volte esagera preoccupando tutti ma è stata quella maledetta guerra, finita ormai da trenta anni, a togliergli la gioia di vivere!


“Questa vite di menavacca* tra due anni dovrà essere spiantata perché ormai troppo vecchia”, continua a pensare.


“E poi dovrò aspettare che il terreno si riposi un po’ per almeno un anno. Vorrei tanto piantare l’uva Italia questa volta…”, inevitabilmente pensa a come farà ad affrontare il naturale calo di guadagno ma le giornate da bracciante nei terreni non suoi ci sono sempre e così si tirerà avanti.


“I ragazzi non devono essere toccati, è importante più della mia vita che possano continuare gli studi perché un giorno non debbano più dipendere dalla terra, dal duro lavoro della campagna”…


… il caldo è insopportabile sotto questa vite ma le cicale accarezzano le orecchie col loro canto insistente; gli steli prosciugati delle foglie si staccano dalla piante e, cadendo, si esibiscono insieme in un ballo piroettato verso terra.


I colori delle foglie, verde, rosso e marrone, formano un arcobaleno, un saluto all’anno di raccolta ormai al termine.


Ancora un’altra sigaretta in ginocchio, un ulteriore calcolo di quanto guadagnerà dalla vendemmia ma Vito continua a voler rimanere lì, gongolato dalla brezza del mare e dal fruscio delle foglie.


“È ora di pranzo, Maria starà già aspettando ed i ragazzi saranno tornati da scuola, come al solito affamati”.


Sulla strada le ultime macchine dei confinanti si dirigono in paese e così decide di alzarsi; si pulisce il pantalone sul ginocchio e con veloci sprofondamenti nel terreno arido si dirige verso la macchina, la millecento che prima o poi dovrà decidersi a cambiare.


La piccola dei suoi figli lo prende sempre in giro: “Guarda, papà, inizia a crescere l’erba in macchina se non ti sbrighi a togliere tutta questa terra”.


“Ah – pensa Vito - se riuscissi a raccontarti come è stato difficile per me da piccolo andare in campagna con u traiein** ed il mulo. Solo alcuni potevano permettersi il cavallo!


La mattina mi svegliavo alle tre; pulivo il mulo, lo uscivo dallo iuso***, lo legavo a u traiein e finalmente, con i tuoi zii e tuo nonno, si partiva.


Il viaggio era lento e placido e tra una buca ed un’altra, sulla strada pietrosa, riuscivo a chiudere gli occhi facendo finta di essere ancora a letto. E ci riuscivo perché il sole non era ancora spuntato ed il buio conciliava la dormita passeggera”.


 


* Menavacca: Uva Regina, dai grappoli bianchi allungati. Letteralmente mena vacca sta per capezzolo di mucca.


** Traiein: il barroccio. Era costruito con legno di quercia. Carro agricolo con pianale montato su due grandi ruote trainate da un mulo o un cavallo.


*** Iuso: sottointerrato della casa adibito a stalla.



Agata Santamaria

lunedì 15 settembre 2008

La luce che cura

la luce che cura / copertina




Durante uno dei miei viaggi radiofonici ho conosciuto Fabio Marchesi.


È stato un incontro-illuminazione e quando ho letto il suo testo “La fisica dell’anima”, è stato bello condividere con lui alcune intuizioni che da tempo vado maturando e sembratemi a tratti inconfessabili.


È stato così gentile nel concedermi un’intervista di presentazione del suo lavoro: “La luce che cura”, edizione Tecniche Nuove.


Fabio Marchesi è un ingegnere informatico che ha iniziato la sua attività di ricercatore come studioso di sistemi di analisi della composizione corporea. Scienziato e ricercatore ortomolecolare, è membro dell’AIMO, della New York Academy of Science, dell’American Association for the Advancement of Sciences.




marchesi fabioLa Luce che cura

Gli effetti degli ultravioletti sul benessere psicofisico


 


“La luce che cura” fa subito pensare al sole.


È ormai da tempo che si sente parlare male del sole o, meglio, degli effetti nocivi che avrebbe sull’uomo. In particolare, a partire dagli anni Sessanta, ricerche scientifiche hanno demonizzato l’azione degli ultravioletti. Il mio lavoro vuole sconvolgere questo dato dimostrando, con ricerche, statistiche e documentazioni scientifiche rigorose, gli effetti positivi della luce del sole ed ultravio-letta sia sulla fisiologia che sull’emotività umana.


Perché dunque la medicina continua a sostenere questa teoria?


Sin da quando, nel 1938, la medicina ha scoperto la penicillina, le ditte farmaceutiche, oggi tutte società multinazionali, hanno scoperto nelle cure di tipo farmacologico un enorme business. Se oggi in farmacia si indagasse sui farmaci e il loro consumo, si scoprirebbe che, su 100 di essi, solo una minima parte può essere ritenuta realmente utile e necessaria al benessere umano, mentre i rimanenti o creano più complicazioni dei mali che curano, rimandandoli solo nel tempo, o vengono consumati in maniera comunque eccessiva.


Ma allora come si spiega che le aspettative di vita negli ultimi decenni sono aumentate grazie ai rimedi della medicina moderna?


Le aspettative di vita saranno aumentate, ma non di certo la qualità della vita. Platone 2400 anni fa è vissuto fino a cento anni senza farmaci, così come molti altri; se la medicina fosse realmente una scienza fondata sulla ricerca della verità, oggi si vivrebbe in salute duecento anni.


Possiamo ritenere che i rimedi farmaceutici stiano indebolendo l’organismo umano?


Sembra che la “nuova scienza”, cioè quella legata alla ricerca del massimo profitto, abbia sostituito la scienza fondata sulla ricerca della verità; l’obiettivo non è quello di fare scoperte per avere una popolazione sana, è divenuto piuttosto quello di creare una popolazione grande consumatrice di farmaci, che non può certo essere sana. L’industria della chimica è estremamente potente, non è presente solo nella farmacologia, ma in ogni cosa venga prodotta dall’uomo. Le stesse multinazionali da una parte producono le sostanze intossicanti, ossidanti e cancerogene che vengono utilizzate nell’alimentazione, nella cosmesi, nell’agricoltura, dall’altra producono altre sostanze chimiche che vengono consumate per cercare di evitare gli effetti negativi delle prime. Un circolo vizioso che ha portato le popolazioni ad essere sempre più deboli ed ammalate e le multinazionali ad arricchirsi. Tutto ciò che potrebbe interrompere questo gioco, come la conoscenza da parte delle popolazioni degli effetti terapeutici della luce solare e dei raggi ultravioletti, è stato e viene “combattuto” con apposite ricerche pseudoscientifiche atte a far credere che tali effetti siano nocivi. Sono riusciti nel loro intento. Oggi si vive in grave carenza di esposizione alla luce solare ed ultravioletta: gli UV sono stati banditi dall’illuminazione artificiale. Dalle finestre e dagli occhiali da sole e da vista non passano; quando ci si espone al sole tutti sono stati “educati” a mettere creme solari con filtri chimici cancerogeni ed intossicanti. Il risultato è una popolazione con grossi problemi: disturbi emozionali, disturbi del sonno, eccesso di peso, eccesso nel consumo di farmaci, deficienze nel sistema immunitario. Nessuno sospetta la potenza ed efficacia terapeutica della luce solare e dei raggi ultravioletti, che non sono brevettabili e sono gratuiti. Nel mio libro spiego semplicemente come riappropriarsi della salute attraverso la luce.


Quali ricerche hanno dimostrato gli effetti positivi dei raggi ultravioletti?


Centinaia di studi, molti dei quali pubblicati su riviste scientifiche prestigiosissime. Finsen nel 1903 ottenne il premio Nobel per aver scoperto nella luce ultravioletta la terapia più efficace contro la tubercolosi. Decine di studi sono stati condotti ad esempio in scuole elementari; in una di esse sono stati confrontati gli effetti su centinaia di bambini esposti ad illuminazione di lampade ad ampio spettro con ultravioletti, rispetto a quelli esposti ad illuminazione tradizionale con lampade al neon. I risultati sono stati sconvolgenti: nelle aule illuminate con luce simile a quella del sole si sono registrate meno carie dentali, un terzo delle assenze per malattia, migliore rendimento scolastico, minori comportamenti aggressivi, migliore crescita e sviluppo. Di esempi simili a questo ve ne sono a centinaia, ma nessuno li conosce.


la nascita della rosa


       Foto: http://www.miorelli.net/frattali/arte.html




Ma perché allora si continua a sostenere che i raggi ultravioletti fanno male?


Per ignoranza e per convenienza. Gli ultravioletti fanno male solo alle farmacie. Fanno male quando dalla situazione di grave carenza, ormai abituale, si espone bruscamente a grandi dosaggi un organismo malnutrito ed ossidato. In realtà non solo fanno bene, sono indispensabili al corretto funzionamento dell’organismo umano. L’ipercolesterolemia e l’osteoporosi, tanto per fare due esempi, producono vittime, disagi e fatturati altissimi e sono perlopiù solo l’effetto della carenza di esposizione ai raggi ultravioletti. Ancora, negli ultimi 35 anni si è registrata una diminuzione del 60% nell’ormone maschile, il testosterone, che viene prodotto dall’organismo (come la vitamina D) quando è esposto alla luce ultravioletta, consumando il colesterolo.


La luce gioca quindi un ruolo cruciale nel nostro benessere?


Sono solo dati di fatto incontestabili che sono stati tenuti nascosti alle popolazioni mediche e alle masse per pura convenienza. È stato addirittura scoperto, con uno studio condotto su mezzo milione di persone, che più luce del sole riceve la madre negli ultimi tre mesi di gravidanza e più ne riceve il neonato nei primi tre mesi di vita, maggiore sarà la sua altezza da adulto. Il sole stimola tra le altre cose la produzione dell’ormone della crescita.


Cosa ne pensa della relazione che la medicina dichiara esserci tra l’insorgenza dei tumori, in particolare dei melanomi, e l’esposizione al sole?


Niente di più falso e mistificato. Se si analizza la distribuzione geografica dell’incidenza di tumori - non solo della pelle -, si scopre che sono tanto più frequenti quanto più le aree geografiche sono distanti dall’equatore: meno sole = più tumori. Fanno eccezione solo le aree dove vengono utilizzate in modo esasperato creme con filtri solari che sono cancerogeni. La falsa paura dei tumori della pelle ha però incrementato il fatturato delle multinazionali della chimica attraverso le creme protettive.


Quali consigli può dare per sottoporsi all’esposizione solare senza subire danni?


La natura ci ha fornito di validi protettori: tutti gli alimenti prodotti dalla natura con la luce del sole, nonché frutta e verdura, che sono ricchi di vitamina A, E, C e selenio, aiutano l’organismo a gestire alti dosaggi di luce solare.


Assumendo 300 grammi al giorno di pomodori maturati al sole si ha, grazie al licopene in esso contenuto, una protezione equivalente ad un fattore 4. Quello che va evitato sono le variazioni brusche: se si offrisse ad un bambino africano denutrito un pasto con primo, secondo, contorno, formaggio, dolce e frutta, è ovvio, si sentirebbe malissimo. Oggi è come se tanti individui denutriti volessero farsi grandi abbuffate. Bisogna esporsi per gradi, proteggendosi non con sostanze chimiche ma con cappelli, magliette ed ombrelloni fino a quando non si è gia abbastanza abbronzati da poter stare tranquillamente al sole. Il problema non è l’estate, il problema è che l’organismo ha bisogno della luce del sole quotidianamente, almeno un’ora al giorno, tutto l’anno.


A cura di Agata Santamaria


 




Il Progetto BIODREAM


Marchesi ha brevettato nel 1994 il sistema INFRAFIT, per il dimagramento basato sull’impiego dei raggi infrarossi (oggi è presente in oltre 200 centri in Italia e all’estero), e nel 2000 il sistema Biodream per la disintossicazione, la cura della depressione e l’incremento di salute e vitalità. BioDream è un sistema combinato di luce-terapia, cromoterapia, ipertermia e terapia informazionale. Sono circa 20 i centri in Italia che oggi propongono trattamenti con


questa apparecchiatura, oltre a due cliniche all’estero.


 


  Leggi l’intervista pubblicata su RAM


http://www.fabiomarchesi.com/articoli_e_recensioni.html


 


  Visita il sito


http://www.fabiomarchesi.com


http://win.luceonline.it/articoli/categoria2/lalucechecura.htm

venerdì 12 settembre 2008

La velocità della luce

la velocità della luceLa velocità della luce


di Javier Cercas


Ugo Guanda Edizioni, Parma, 2005


 


Credete voi agli incontri capaci di insegnarci cose che torneranno utili a distanza di tempo e di spazio?


“La velocità della luce” di Javier Cercas svela questo mistero.


 


 


                 L’aspirante scrittore catalano, il cui nome resta sconosciuto lungo tutto il romanzo, ha delle forti similitudini biografiche con lo stesso Cercas. Anche lui inizia a lavorare nel mondo dell’editoria, anche lui si trasferisce in una Università dell’Illinois per insegnare letteratura spagnola. Qui incontra Rodney Falk, un reduce della guerra in Vietnam, esperto conoscitore di letteratura ma allo stesso tempo uomo schivo e profondamente solo.


Il giovane catalano si lascia coinvolgere dal mistero di Rodney e, a seguito della sua scomparsa, lo cerca invano. Attraverso i ricordi del padre e le lettere scritte dalla guerra che il padre di Rodney gli regala, conosce i perché dell’inquietudine del suo amico, scopre l’orrore della guerra.


 


“… ma Rodney non ci mise molto a capire che l’azione combinata di Vietnam e vita militare gli aveva tolto complessità, e questo, che considerava come una sorta di mutilazione della propria personalità, in fondo all’animo gli procurava un certo sollievo: la condizione di soldato annullava il suo margine di autonomia personale, ma quel divieto di decidere per se stesso, quell’essere sottomesso alla stretta gerarchia militare, umiliante e degradante com’era, agiva al tempo stesso da anestetico che generava in lui una contentezza sconosciuta, abietta ma reale, perché in quel modo scoprì sulla propria pelle che la libertà è più ricca della schiavitù, ma anche più dolorosa, e per lo meno lì, in Vietnam, ciò che meno desiderava era soffrire”.


 


Ma l’orrore non appartiene solo ai campi di battaglia: è questo il vero filo conduttore del romanzo. La società della pace apparente produce mostri e tra questi la voglia di successo da cui sarà travolto lo stesso giovane catalano a distanza di anni. Diventato scrittore famoso, in nome della celebrità perde di vista se stesso cercando soddisfazioni personali sempre più superficiali e soprattutto, trascurando sua moglie e di suo figlio, diventa complice della loro stessa morte.


Rimasto solo come Rodney, faccia a faccia con i propri demoni, il giovane protagonista sente che l’unico possibile riscatto è ritrovare l’amico per scoprire da quale colpa, da quale ricordo preciso stia fuggendo; ma anche per non lasciare che tutto sia stato inutile, che tanto dolore finisca ingoiato dall’oblio...


 


“… Allora capii di colpo quello che non ero stato in grado di capire quella notte di tanti anni addietro, e cioè che se io avevo lasciato la festa ed ero andato dietro a Rodney era stato perché guardandolo alla finestra avevo intuito che era l’uomo più solo del mondo e che, per qualche indubbio motivo che tuttavia non era alla mia portata, io ero l’unica persona che potesse fargli compagnia, e capii anche che, in quella notte di tanti anno dopo, la situazione si era invertita. Adesso anch’io ero responsabile della morte di una donna e di un bambino (o comunque mi sentivo responsabile della morte di una donna e di un bambino), adesso ero io l’uomo più solo del mondo, un animale perso in mezzo a un branco di animali di un’altra specie, e adesso era Rodney, e forse soltanto Rodney, che poteva farmi compagnia, perché lui aveva percorso molto tempo prima e per molto più tempo di me lo stesso tunnel di orrore e rimorsi…”


Ma quando arriva a Rantoul per incontrare Rodney…



 



cercas


9 Intervista di Elisabetta Menetti a Javier Cercas


I ritagli della storia e la memoria dei romanzi


http://www.griseldaonline.it/percorsi/6cercas_it.htm


?Articolo – Curiosità di Javier Cercas


 http://www.emigratisardi.com/Chi-manovra-i-microchip-del.html?debut_articles_rubrique=45


Agata Santamaria

domenica 31 agosto 2008

Partitura d'addio

partitura d

Partitura d’addio


di Pascal Mercier, Mondadori 2008


 


“Esistono sventure di tale portata che non si possono reggere se non le si traduce in parole”, è il passo finale dell’ultimo romanzo di Pascal Mercier, alias Peter Bieri, nato a Berna nel 1944 e professore di filosofia alla Freie Universitat di Berlino.


 


Tema centrale del romanzo è lo stretto legame tra genio e follia.


Van Vliet è un uomo che non ha mai voluto figli ma si ritrova, al culmine della sua carriera da biotecnologo, a dover affrontare la perdita della moglie Cécile e ad essere l’unico responsabile della vita di sua figlia Lea. Assorbito dal dolore di Lea, proprio quando sembra non incontrare soluzione alla sua totale chiusura emotiva, accade il miracolo, l’incontro con la musica e con il violino di Joan Sebastian Bach.


“… lei aveva suonato come se costruisse un’immaginaria cattedrale di suoni in cui potersi rifugiare quando non fosse stata più in grado di sopportare la vita”.


Ma da questo mondo, capace di farle esprimere ai massimi livelli il suo genio musicale, Lea non farà più ritorno. A infrangere la sua cattedrale è proprio l’amore per David Lévy, un violinista di cui si innamora. Il matrimonio di David con un’altra, è per Lea un nuovo lutto, il ricordo della perdita di sua madre che ritorna senza lasciarle scampo.


 


Pascal Mercier è un maestro nel descrivere, mantenendo un equilibrato distacco razionale, le emozioni e gli aspetti morbosi dei rapporti umani.


 


Dello stesso autore:


Treno di notte per Lisbona


Mondadori, 2006


 


Sullo stesso tema:


Film: “Piano Solo” di Riccardo Milani con Kim Rossi Stuart e Michele Placido, 2007


piano solo locandina



Arte, follia, amore, genialità, passione, sofferenza hanno contraddistinto la vita artistica e privata di Luca Flores, inimitabile pianista italiano morto suicida nel 1995. La pellicola di “Piano solo” prende spunto dal libro scritto da Walter Veltroni, “Il disco del mondo”, dedicato alla vita di Luca Flores.


Dalla morte della madre, causa scatenante del completo abbandono del piccolo Luca alla sua passione per la musica, il film ripercorre l’intera vicenda di un artista in grado di incantare anche pietre miliari del Jazz del calibro di Chet Baker. E lo fa costruendo due storie parallele. Quella del Flores pianista ed artista di incontenibile successo. E quella del Luca introverso, fragile, solo appunto. Due storie che procedono di pari passo al ritmo della stupenda colonna sonora e che confluiscono, infine, nella pazzia del protagonista e nel suicidio finale.piano solo


Una storia difficile e delicata, interpretata splendidamente da Kim Rossi Stuart, che veste i panni del protagonista. Incredibile prova di recitazione, e straordinario esempio di regia. 


Visita:  http://www.lucaflores.com








mercoledì 20 agosto 2008


Fate battere i vostri cuori all'unisono con le mie parole

Discorso tenuto da Gandhi alla conferenza delle relazioni interasiatiche del 2 aprile 1947


Signora Presidente e amici, non credo di dovermi scusare con voi per il fatto che sono costretto a parlare in una lingua straniera. Chissà se questi altoparlanti porteranno la mia voce fino ai confini di questo immenso pubblico. Quelli di voi che sono lontani possono alzare la mano, se sentono quello che dico? Sentite? Bene. Bene, se la mia voce non vi giunge, non è colpa mia, ma colpa degli altoparlanti.
Quello che volevo dirvi è che non devo scusarmi. Non oso, visti tutti i delegati che si sono riuniti qua da tutta l’Asia, e gli osservatori – ho imparato questa parola pronunciata da un amico americano che disse: “Non sono un delegato, sono un osservatore”. Di primo impatto con lui, vi assicuro, pensavo venisse dalla Persia, ma ecco davanti a me un americano e gli dico: “Sono terrorizzato da te, e vorrei che mi lasciassi stare”. Potete immaginare un americano che mi lasci stare? Non lui e, quindi, ho dovuto parlargli.
Quello che volevo dirvi è che il mio idioma per me madrelingua, non lo potete capire, e non voglio insultarvi insistendo su di esso. Il linguaggio nazionale, Hindustani, ci metterà tanto tempo prima di rivaleggiare con un linguaggio internazionale.
Se ci deve essere rivalità, c’è rivalità tra francese e inglese. Per il commercio internazionale, indubbiamente l’inglese occupa il primo posto. Per discorsi e corrispondenza diplomatici, sentivo dire quando studiavo da ragazzo che il francese era la lingua della diplomazia e se volevi andare da una parte all’altra dell’Europa dovevi provare ad imparare un po’ di francese, e quindi ho provato ad imparare qualche parola di francese per riuscire a farmi capire. Comunque, se ci deve essere rivalità, la rivalità potrebbe nascere tra francese e inglese. Quindi, avendo imparato l’inglese, è naturale che faccia ricorso a questa parlata internazionale per rivolgermi a voi.
Mi chiedevo di cosa dovessi parlarvi. Volevo raccogliere i miei pensieri, ma lasciate che sia onesto con voi, non ne ho avuto il tempo.
Però ieri ho comunque promesso che avrei provato a dirvi qualche parola.
Mentre venivo con Badshah Khan, ho chiesto un piccolo pezzo di carta ed una matita. Ho ricevuto una penna invece di una matita. Ho provato a scarabocchiare qualche parola. Vi spiacerà sentirmi dire che quel pezzo di carta non è qui con me. Ma questo non importa, ricordo cosa volevo enunciare, e mi sono detto: “I miei amici non hanno visto la vera India, e non ci stiamo incontrando in una conferenza nel cuore della vera India”.
Delhi, Bombay, Madras, Calcutta, Lahore – queste sono tutte grandi città e quindi, hanno subito l’influenza dell’Occidente, sono state fatte, magari eccetto Delhi ma non New Delhi, sono state fatte dagli inglesi. Poi ho pensato ad un breve saggio – credo che dovrei chiamarlo così – che era in francese. Era stato tradotto per me da un amico anglo-francese, e lui era un filosofo, era anche un uomo altruista e diceva che mi aveva dato la sua amicizia senza che io lo conoscessi, perché lui parteggiava per le minoranze ed io rappresentavo, assieme ai miei connazionali, una minoranza senza speranze, e non solo senza speranze ma una minoranza disprezzata.
Se gli europei del Sudafrica mi perdonano per quello che dico, eravamo tutti “coolies” [lavoratore non qualificato a basso costo]. Io ero un insignificante avvocato “coolie”. A quei tempi non avevamo dottori “coolie”, non avevamo avvocati “coolie”. Ero il primo nel campo. Ma sempre un “coolie”. Magari sapete cosa si intende con la parola “coolie” ma questo mio amico, si chiamava Krof – sua madre era francese, suo padre inglese – disse: “Voglio tradurre per te una storia francese”.
Mi perdonerete, chi di voi sa la storia, se nel ricordarla faccio degli errori qua e là, ma non ci sarà nessun errore nell’avvenimento principale.
C’erano tre scienziati e – ovviamente è una storia inventata – tre scienziati uscirono dalla Francia, uscirono dall’Europa alla ricerca della “Verità”. Questa era la prima lezione che mi aveva insegnato quella storia, che se bisogna cercare la verità, non la si trova su suolo europeo. Quindi, indubbiamente neanche in America.
Questi tre grandi scienziati andarono in parti diverse dell’Asia. Uno trovò la strada per l’India e diede inizio alla sua ricerca. Raggiunse le cosiddette città di quei tempi. Naturalmente, ciò avvenne prima dell’occupazione inglese, prima anche del periodo Mughal, così è come ha illustrato la storia l’autore francese, ma visitò comunque le città, vide la gente delle cosiddette caste alte, uomini e donne, fino a che non si addentrò in un’umile casa, in un umile villaggio, e quella casa era una casa Bhangi, e trovò la verità che stava cercando, in quella casa Bhangi, nella famiglia Bhangi, uomo, donna, forse 2 o 3 bambini (lo dico come me lo ricordo) e poi lui descrive come la trovò. Tralascio tutto questo.
Voglio collegare questa storia a quello che voglio dire a voi, che se volete vedere il meglio dell’India, dovete trovarlo in una casa Bhangi, in un’umile casa Bhangi, o villaggi simili, 700.000 come ci insegnano gli storici inglesi. Un paio di città qua e là, non ospitano neanche qualche crore [unità di misura indiana che equivale a 10 milioni] di persone. Ma i 700.000 villaggi ospitano quasi 40 crore di persone. Ho detto quasi perché potremmo togliere una o due crore che stanno in città, comunque sarebbero 38 crore.
E poi mi sono detto, se questi amici sono qui senza trovare la vera India, per cosa saranno venuti? Ho poi pensato che vi pregherò di immaginare quest’India, non dal punto di vista di questo immenso pubblico ma per come potrebbe essere. Vorrei che leggeste una storia come questa storia dei francesi o altre ancora. Magari, qualcuno di voi vada a vedere qualche villaggio dell’India e allora troverà la vera India.
Oggi farò anche questa ammissione: non ne sarete affascinati alla vista. Dovrete raschiare sotto i mucchi di letame che sono oggi i nostri villaggi. Non voglio dire che siano mai stati dei paradisi. Ma oggi sono veramente dei mucchi di letame; non erano così prima, di questo sono abbastanza certo. Non l’ho appreso dalla storia ma da quello che ho visto io stesso dell’India, fisicamente con i miei occhi; e io ho viaggiato da una parte all’altra dell’India, ho visto i villaggi, i miserabili esemplari dell’umanità, gli occhi senza vita, eppure sono l’India, e ciononostante in quelle umili case, nel mezzo dei mucchi di letame troviamo gli umili Bhangis, dove troverete un concentrato di saggezza. Come? Questa è una grande domanda.
Bene, allora voglio illustrarvi un altro scenario. Di nuovo, ho imparato dai libri, libri scritti da storici inglesi, tradotti per me. Tutta questa ricca conoscenza, mi spiace dire, arriva qui da noi in India attraverso i libri inglesi, attraverso gli storici inglesi, non che non ci siano storici indiani ma neanche loro scrivono nella loro madrelingua, o nella loro lingua nazionale, Hindustani, o se preferite chiamarli due idiomi, Hindi e Urdu, due forme della stessa lingua. No, ci riferiscono quello che hanno studiato sui libri inglesi, magari gli originali, ma attraverso gli inglesi in inglese, questa è la conquista culturale dell’India, che l’India ha subito.
Ma ci dicono che la saggezza è arrivata dall’Oriente verso l’Occidente. E chi erano questi saggi? Zoroastro. Lui apparteneva all’Oriente. Fu seguito dal Buddha. Lui apparteneva all’Oriente, apparteneva all’India. Chi ha seguito il Buddha? Gesù, di nuovo dall’Asia. Prima di Gesù ci fu Musa, Mosè, che apparteneva anche lui alla Palestina, ma verificavo con Badshah Khan e Yunus Saheb ed entrambi sostenevano che Mosè appartenesse alla Palestina, sebbene fosse nato in Egitto. Poi venne Gesù, poi Mohammad. Tutti loro li tralascio. Tralascio Krishna, tralascio Mahavir, tralascio le altre luci, non le chiamerò luci minori, ma sconosciute in Occidente, sconosciute al mondo letterario.
In ogni modo, non conosco una singola persona che possa uguagliare questi uomini d’Asia. E poi cosa accadde? Il Cristianesimo, arrivando in Occidente, si è trasfigurato. Mi spiace dire questo, ma questa è la mia lettura. Non dirò altro al riguardo. Vi racconto questa storia per incoraggiarvi e per farvi capire, se il mio povero discorso può farvi capire, che lo splendore che vedete e tutto quello che vi mostrano le città indiane non è la vera India. Certamente, il massacro che avviene sotto i vostri occhi, mi dispiace, vergognoso come dicevo ieri, dovete seppellirlo qui. Il ricordo di questo massacro non deve oltrepassare i confini dell’India, ma quello che voglio voi capiate, se potete, è che il messaggio dell’Oriente, dell’Asia, non deve essere appreso attraverso la lente occidentale, o imitando gli orpelli, la polvere da sparo, la bomba atomica dell’Occidente.
Se volete dare di nuovo un messaggio all’Occidente, deve essere un messaggio di “Amore”, un messaggio di “Verità”.
Ci deve essere una conquista (applausi) per favore, per favore, per favore. Questo interferisce con il mio discorso, e interferisce anche con la vostra comprensione. Voglio catturare i vostri cuori, e non voglio ricevere i vostri applausi. Fate battere i vostri cuori all’unisono con le mie parole, e io credo che il mio lavoro sarà compiuto.Voglio lasciarvi con il pensiero che l’Asia debba conquistare l’Occidente. Poi, la domanda che mi ha fatto un mio amico ieri: “Se credevo in un mondo unico?”. Certo, credo in un mondo unico. Come posso fare diversamente, quando divento erede di un messaggio di amore che questi grandi, inconquistabili maestri ci hanno lasciato? Potete esprimere questo messaggio di nuovo ora, in questa era di democrazia, nell’era del risveglio dei più poveri dei poveri, potete esprimere questo messaggio con maggiore enfasi. Poi completerete la conquista di tutto l’Occidente, non attraverso la vendetta perché siete stati sfruttati, e nello sfruttamento voglio ovviamente includere l’Africa, e spero che quando vi reincontrerete in India la prossima volta ci sarete tutti: spero che voi, nazioni sfruttate della terra, vi incontrerete, se a quell’epoca ci saranno ancora nazioni sfruttate.
Ho forte fiducia che se unite i vostri cuori, non solo le vostre menti, e capite il segreto dei messaggi che i saggi uomini d’Oriente ci hanno lasciato, e che se veramente diventiamo, meritiamo e siamo degni di questo grande messaggio, allora capirete facilmente che la conquista dell’Occidente sarà stata completata e che questa conquista sarà amata anche dall’Occidente stesso.
L’Occidente di oggi desidera la saggezza. L’Occidente di oggi è disperato per la proliferazione della bomba atomica, perché significa una completa distruzione, non solo dell’Occidente, ma la distruzione del mondo, come se la profezia della Bibbia si avverasse e ci fosse un vero e proprio diluvio universale. Voglia il cielo che non ci sia quel diluvio, e non a causa degli errori degli umani contro se stessi. Sta a voi consegnare il messaggio al mondo, non solo all’Asia, e liberare il mondo dalla malvagità, da quel peccato.
Questa è la preziosa eredità che i vostri maestri, i miei maestri, ci hanno lasciato.


M. K. Gandhi


  Ascoltalo:


http://fai.informazione.it/p/37e04a69-77f3-4c5a-ab59-8f6160a4d31d/Il-discorso-di-Gandhi-trovato-e-restaurato-ascoltatelo-e-leggetelo-tradotto-qui?v




domenica 27 luglio 2008

Fernando Pessoa

Fernando PessoaFernando Pessoa


Il poeta è un fingitore


Citazioni scelte da Antonio Tabucchi


Feltrinelli


 


Fernando Pessoa, portoghese cresciuto in Sudafrica, è un personaggio assai complesso che riflette la frammentarietà dell’uomo postulata dalla psicanalisi e da un certo esistenzialismo novecentesco. Non a caso le sue opere sono firmate di volta in volta, da sé stesso e da altri tre personaggi immaginari: Alvaro de Campos, un ingegnere di origine portoghese educato all’inglese, ma sempre con la sensazione di essere straniero in qualsiasi parte del mondo, Ricardo Reis, un medico latinista e monarchico che in un certo qual modo simboleggia l’eredità classica nella letteratura occidentale, espressa con simmetria, armonia, una certa vena bucolica e con elementi epicurei e stoicismi, e, infine, Alberto Caeiro, contadino senza titoli di studio oltre a quello elementare.


 


 


 


 


 


Il poeta è un fingitore.


Finge così completamente


Che arriva a fingere che è dolore


Il dolore che davvero sente.


SM, I, 165


 


Sentire tutto in tutte le maniere,


vivere tutto da tutte le parti,


essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo…


SM, I, 329


 


È l’amore che è essenziale.


Il sesso è solo un accidente.


Può essere uguale


O differente.


L’uomo non è un animale:


è una carne intelligente,


anche se a volte malata.


SM, I, 223


 


Ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi. Preferisco essere preso seriamente per quello che sono, ignorato umanamente, con decenza e naturalezza.


LI, 106


 


Di nuovo ti rivedo, città della mia infanzia spaventosamente perduta…


Città triste e allegra, eccomi tornato a sognare…


Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, che qui è tornato,


e che qui è tornato a tornare, e a ritornare,


e di nuovo a ritornare?


O siamo tutti gli Io che qui sono stato o sono stati,


una serie di grani-enti legati da un filo-memoria,


una serie di sogni di me di qualcuno fuori di me?


SM, I, 373


 


Sono sempre stato un sognatore ironico, infedele alle promesse segrete. Ho sempre assaporato, come altro e straniero, la sconfitta dei miei vaneggiamenti, assistendo casualmente a ciò che credevo di essere. Non ho mai prestato fede alle mie convinzioni. Ho riempito le mie mani di sabbia, l’ho chiamata oro, e ho aperto le mani facendola scorrere via. La frase era stata l’unica verità. Una volta detta la frase, tutto era fatto, il resto era la sabbia che era sempre stata.


LI, 149


 


I sentimenti più dolorosi e le emozioni più pungenti, sono quelli assurdi: l’ansia di cose impossibili, proprio perché sono impossibili, la nostalgia di ciò che non c’è mai stato, il desiderio di ciò che potrebbe essere stato, la pena di non essere un altro, l’insoddisfazione per l’esistenza del mondo. Tutti questi mezzi toni della coscienza dell’anima creano in noi un paesaggio dolorante, un eterno tramonto di ciò che siamo. Il sentirci è allora un campo deserto che imbrunisce, triste di giunchi accanto a un fiume senza imbarcazioni, nereggiando chiaramente tra rive lontane


LI, 79



Legenda:


SM, I: Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, a cura di A. Tabucchi


LI: Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, a cura di M. J. de Lancastre


 


 


 


 

sabato 19 luglio 2008

la donna del ritrattoLa donna del ritratto


di Javier Cercas, Ugo Guanda Editore


Il titolo del romanzo di Javier Cercas è anche quello di un film anni quaranta di Fritz Lang: un professore universitario di criminologia subisce il fascino di una giovane donna incontrata per caso all’uscita da un club: va a casa sua e mentre discorre con lei piomba in casa l’amante della donna. Il professore, aggredito dall’uomo, lo ammazza per legittima difesa; si sbarazza poi del corpo con la complicità della donna e, quando ormai pensa che la polizia è sulla sua pista, ingerisce degli psicofarmaci per togliersi la vita. La sorpresa finale del film di Lang è che tutta la storia è in realtà non altro che un sogno/incubo del professore. La donna del ritratto è considerato un capolavoro assoluto del genere noir; gioca sul labile confine tra il bene e il male, tra la veglia e il sonno, tra l’innocenza e la colpevolezza.


Anche il romanzo di Cercas, ambientato a Barcellona, muove i suoi primi passi all’uscita di un cinema dove il protagonista, Tomás, ha appena visto il film di Fritz Lang. Incontra Claudia, il suo irrealizzato amore dei tempi del liceo e subito capisce che Claudia è sempre stata la donna della sua vita. Trascinato da un'esaltazione adolescenziale, il protagonista - che per esistere ha bisogno di mischiare vita e letteratura, scrittura e esperienza - si ritrova al centro di un'avventura erotica che ben presto assume i contorni del giallo, perché Claudia, dopo un’unica notte d’amore, svanisce nel nulla e lo costringe a un'affannosa ricerca che è anche una lotta contro le proprie ossessioni. In una storia d'amore che si tinge di noir, Javier Cercas racconta il mistero della donna e dei sentimenti; della felicità e del disinganno che segna inesorabilmente i rapporti umani. Esegue la cronaca minuto per minuto di un’insolita autodistruzione amorosa al maschile.


Nel romanzo c’è uno studio attento del rapporto intenso… tra vita reale e letteratura:


“[…] l’adolescenza, quel tempo in cui non si legge per piacere, per curiosità o per costrizione, bensì per un insopprimibile bisogno di conoscere il mondo e se stessi, ma anche, paradossalmente, per un bisogno opposto: quello di rifiutare il mondo e se stessi, non tanto con il proposito di vivere di riflesso le vertigini e i bagliori che una realtà impoverita e prevedibile non permette di vivere, quanto con la volontà di vendicarsi di questa: delle carenze, delle ingratitudini e asprezze, delle umiliazioni, dei fallimenti”.


… tra passato e futuro, ricordo e invenzione:


“[…] passato e futuro non esistono, che il passato è soltanto memoria e il futuro appena una congettura. Magari è vero, ma forse neanche il presente ha una propria entità, obiettiva, non solo perché è inafferrabile, una sottile lamina infinitamente effimera, e, come accade con la felicità, basta nominarla per farla scomparire (è sufficiente citare il presente perché questo si converta automaticamente in passato, così come nessuno può dire di essere felice senza cessare automaticamente di esserlo, poiché la prima condizione della felicità è l’assenza della coscienza della felicità stessa); ma anche perché il presente esiste solo nella misura in cui qualcuno lo inventa. Per questo vivere consiste nell’inventarsi la vita a ogni passo, nel raccontarla a se stessi. Per questo la realtà non è altro che il racconto che qualcuno sta narrando, e se il narratore scompare, anche la realtà scomparirà con lui. Da questo narratore dipende la percezione del mondo. La realtà esiste perché qualcuno la racconta. Inventiamo costantemente il presente, e ancor più il passato. Ricordare è inventare.”

domenica 29 giugno 2008

 piras

L’uomo che volle essere Perón


di Giovanni Maria Bellu


Bompiani, 2008




Avere genitori che hanno vissuto un’epoca storica e politica diversa dalla nostra può essere particolarmente difficile. Crea conflitti e incomprensioni insuperabili.


I nati negli anni cinquanta e sessanta hanno vissuto questa dimensione: da una parte i loro genitori plasmati dalla cultura fascista e dalla guerra, dall’altra parte loro, figli del boom economico, della democrazia e, a volte anche della rivoluzione di estrema sinistra.


Il testo di Giovanni Maria Bellu, L’uomo che volle essere Perón, affronta…


 


“L’andarsene non è la metafora della morte, ma la morte stessa. Non a caso, per farlo ci è indispensabile salire su una nave o su un aereo, qualcosa che, come l’anima, all’arrivo si separa da noi. Quando compiamo il passo, ci aspettiamo un’accoglienza rassicurante come le braccia di una grande madre. Forse è questa la ragione per cui, nel tempo remoto in cui il mare ci era ancora amico, non facevamo altro che costruire piccole madri di pietra”.


 


L’uomo che volle essere Perón di Giovanni Maria Bellu è la storia di una beffa che l’intero paese di Arasolé crea a danno della storia. E’ proprio vero che Perón avrebbe potuto essere un sardo trapiantato in Argentina agli inizii del novecento? Il protagonista del romanzo, un giornalista sardo trapiantato a Roma indaga sul mistero con grande suggestione a tal punto da rendere storicamente veritiera l’ipotesi. Ma questa indagine nasconde il profondo dolore per la recente scomparsa del padre, un sardo di convinta estrazione fascista.


I colori e le voci del popolo sardo fanno da sfondo a ricordi densi di nostalgia e solitudine.


 


“Lo vidi davanti allo specchio mentre col pettine nero e studiati gesti virili si sistemava i capelli all’indietro, lo vidi giovane figlio di su mere passeggiare per le strade di Torino, ventenne fascista negli anni ruggenti del fascismo, quando la guerra era lontana, l’opposizione massacrata, le grande depressione ancora da venire e il più grande filosofo di Arasolé  [Gramsci] marciva in solitudine nel carcere di Turi.


Lo vidi gioire puramente e semplicemente di aver saltato il mare e di godere i benefici di quel passo. Lo vidi vivere la vita che avrebbe sempre rimpianto, senza mai aver avuto il coraggio di dirmelo, per non aggiungere il suo dolore a quel dolore comune di cui non eravamo mai stati capaci di parlare”.


 


 Links


Recensione


http://www.carmillaonline.com/archives/2008/05/002654.html


 


OAscolta l’intervista all’autore di Fahrenheit – radio 3


http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=252740